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Quella strada sotto il mare

Quella strada sotto il mare

Molti lo temevano, altri l’aspettavano con impazienza. Ma fra tutti aleggiava comunque la certezza che il dibattito mondiale su quel fenomeno gigante (e ingigantito) dell’immigrazione clandestina avrebbe fatto prima o poi capolino anche sui grandi schermi. E così è stato con Welcome del regista francese Philippe Lioret (già presentato alla scorsa edizione del Festival di Berlino, dove ha incassato l’approvazione della critica e il Premio del pubblico), che sembra essere a tutti gli effetti il primo capitolo cinematografico di un immaginario europeo attualissimo e ancora tutto da raccontare. Non a caso mentre scorrono le immagini del film ci convinciamo fin da subito che emergono dei cambi di paradigma rispetto alle classiche rappresentazioni cinematografiche: le evocazioni collegate al tema della “grande fuga” che il cinema novecentesco trasfigurava spesso in evasioni “centrifughe”, in Welcome sono rielaborate in evasioni “centripete”. L’immigrato protagonista del film non cerca infatti di evadere per “uscire”, ma per “entrare” , per varcare con ogni stratagemma possibile quella manciata di chilometri che lo separano da un’isola così vicina quanto irraggiungibile. Non ci sono sbarre o catene che lo trattengono, non c’è uno spazio fisico delimitato che lo soffoca (anzi c’è un orizzonte aperto su un oceano). L’unica prigione da cui non riesce a liberarsi è la sua stessa esistenza, la sua condizione sociale, l’identità invisibile e quasi immateriale di immigrato clandestino che lo condanna a gettarsi in un’impresa disperata ma inevitabile: quella di percorrere la strada sotto il mare che divide Francia e Inghilterra, l’unica frontiera rimasta che, come lui, non appartiene ancora a nessuno.

Philippe Lioret riesce pienamente a evidenziare questo aspetto nella sua opera, e lo fa con uno stile registico che alterna il documentario al film d’avventura, senza appesantire troppo con “lezioni etiche” ma facendo sperare fino alla fine che dalla miseria quotidiana degli ultimi del mondo possa nascere un’impresa da guinness dei primati. Lo stesso crescente intreccio fra il giovane immigrato e l’insegnante di nuoto evoca molto di più che un semplice sentimento paterno di un uomo per un figlio mai avuto: è invece quasi un primo vero confronto fra due civiltà, una nel suo impaurito declino e l’altra nella sua faticosa conquista di libertà, che sono costrette a incrociarsi, nei sogni e nella solitudini. Ma mentre il giovane Bilal è spinto da una primordiale forza di vita, nata da esperienze inimmaginabili per l’uomo occidentale (guerre, prigionie, torture, odissee), per l’autoctono Simon, cittadino invecchiato in un nord francese chiuso e xenofobo, l’esistenza appare già al capolinea, stanca e priva di valori. Fino ad averlo reso incapace perfino di “attraversare una strada” per salvare il proprio matrimonio. E anche se durante il film queste due vite così diverse incominceranno a riconoscersi e ad assomigliarsi, le ultime immagini di Welcome, accarezzate dalle note e dal pianoforte di Nicola Piovani, non concederanno niente al lieto fine tanto sperato. Forse proprio per suggerirci che questa storia è un preambolo di un futuro ancora tutto da affrontare.

Ma sarà proprio in questo modo che Welcome, irrompendo liricamente e prepotentemente nell’attualità dei nostri giorni, entusiasmerà e devasterà quel tanto che basta per far ridefinire le distanze, come le miglia marine della manica, fra noi e quel nuovo “fantasma che si aggira per l’Europa” che è il fenomeno della clandestinità. Facendo intuire che per accorciarle è necessario innanzitutto guardare dentro di sé. E facendolo, forse, salvare anche la propria esistenza.

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