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La vita è una questione di camicie o di denti

La vita è una questione di camicie o di denti

Il cinema sghembo dei fratelli Coen spinge lo spettatore a confrontarsi o a scontrarsi con diversi tipi di umanità e diversi tipi di essere umano. Questo succede da sempre. Dentro ogni film dei pestiferi fratelli, che provengono dal Mid West degli States e che detestano ogni forma di intervista (tenendosi a giusta distanza da ogni forma di giornalista, a parte pochi intimi) tanto che qualcuno (il Time) li definisce come “i fratelli noti per i loro film sfiziosi, eleganti e lievemente sciocchi”, dentro ogni loro film, è contenuto un segreto molto più significativo di un’informazione o di una regola di vita, perché costituisce, concretamente, un nuovo modo di accedere al (loro) cinema, una nuova visione/connessione con la (loro) realtà. Ogni film di Joel e Ethan Coen è un’esperienza sensibile, costruita su una rivelazione. Come prima, qui in A Serious Man più di prima, si assiste a un azzeramento dei generi cinematografici fin dal prologo surreale come un racconto yiddish, basato sull’antica credenza nel dybbuk (storie di anime e defunti che perseguitano i vivi), perché sì, in questo film c’è pure un prologo che sembra non c’entri nulla con tutto il resto e che in realtà, forse, serve “soltanto” per avvicinare lo spettatore a un intreccio ebraico, o forse no. E (forse proprio grazie al prologo) ci si trova perfettamente a proprio agio dentro l’universo di senso incompiuto che nel film gradualmente riprende forma, seguendo binari che si sovrappongono, esperienze monche, limiti evidenti lasciati all’animo umano che s’insegue e s’inciampa.

Che si tratti di un’esperienza sensibile, basata sui sensi e quindi sulla ricerca di senso, oltre al prologo, lo confermano le prime inquadrature costruite sulle orecchie (il messaggio che “entra”) e sulla bocca (il messaggio che “esce”): dalle orecchie pelose del preside della scuola a quelle “auricolari” di Danny, figlio di Larry, dalla bocca ipertruccata di Judith, moglie di Larry, a quella supertruccata dell’appassionata Mrs. Samsky, vicina di casa di Larry. Bocca e orecchie, tanto l’evento parlato quanto l’evento ascoltato, vagoni efficaci per dirigere fin da subito lo spettatore nella ricerca. Una comunicazione orale, un’esperienza uditiva o parlata, che però sembra sempre sterile, univoca e mai reciproca, dove c’è sempre qualcuno che subisce un messaggio e mai qualcuno che lo scelga, come dimostra, non a caso, l’aneddoto, assurdo e indimenticabile, del segreto di un comune dentista. A Serious Man sottrae allo spettatore il concetto di Verità conducendolo dentro un sistema obliquo, un labirinto di senso incompiuto fatto di regole e convinzioni, prevaricazioni e sottomissioni nel quale Larry (protagonista vittima e carnefice, fortunatamente interpretato da Michael Stuhlbarg, molta tv e poco cinema) desidera essere qualcun altro perché, quello che è non gli basta (o non basta agli altri), non gli serve (o non serve agli altri), non lo fa sentire ‘libero’ e realizzato (e il raggiungimento o il fallimento della propria carriera universitaria è solo uno dei tanti segni illusori costantemente presenti nella sua vita). A Serious Man, il film, e l’uomo onesto del film s’ingarbugliano dentro un percorso offuscato, per niente luminoso, miope e afono, che cerca la luce e la salvezza ma è destinato a soccombere o ad essere zoppo. Un film costruito sulla sottrazione dell’esperienza, in cui molto sono ciechi (chi ci capisce qualcosa delle lavagnate di Larry o, più profondamente, chi capisce/vede il fratello Arthur?) molti si privano dei contatti fisici e in cui pochi gustano il bello (e chi dimostra di gustarsi qualcosa, ad esempio Danny con la marijuana o Sarah sognando di rifarsi il naso, sono costantemente esposti all’ansia o al disagio), ambientato nel 1967, ucronistico quando suona a raffica Machine Gun di Hendrix (che è del 1969), che si appoggia all’estetica delle camicie per raccontare l’animo dei suoi protagonisti (quella hawaiana e tenuta fuori dai pantaloni del mistico Sy Ableman, quella a maniche corte, universitaria, nerd e tenuta dentro i pantaloni di Larry).

È un film sulla fede (che non c’è) ma non sulla Legge o sulle leggi, che mette a dura a prova la fede del suo ‘uomo perbene’ ma qui fallito, e che dovrebbe spingere l’uomo di fede, proprio perché questo serious man fallito è uno sconfitto, se non a una messa in discussione della propria fede quantomeno ad una riflessione. Un film da cogliere come un invito, una sollecitazione a non far prevalere la paura, l’ignoto, lo sconforto, la sporcizia della corruzione sulla vita. Un film con un finale devastante per ciascuno (ciascuno che abbia visto il film seguendo le sue orme sensibili – ma come vederlo senza?) che investe di un valore assoluto il semplice gesto di una gomma che cancella un dato (significativo come, ancora una volta, attraverso una sottrazione si percepisca la moralità e il (non) senso della vita di Larry). Le nubi che Danny scorge all’orizzonte mettono il punto ad una nuova e acida tragedia umana firmata dai Coen, questa volta, forse, più concentrati a stabilire e rappresentare la complessità della vita dal punto di vista di un uomo che è anche padre, non privo di responsabilità che nel suo mondo fanno rima con sfighe. Non poteva esserci un cielo diverso. Un film che ci vuole una vita intera per confutarlo.

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