Torino Film Festival
Diario, 16 novembre
Un calo (seppur piccolo) di pubblico rispetto allo scorso anno. E’ questo che emerge dai dati snocciolati oggi dall’ufficio stampa del TFF, che dichiara 18.000 presenze nei primi tre giorni di Festival, contro le 19.000 dell’anno scorso. Precisando però che “tenuto conto che il numero di proiezioni di queste prime giornate è stato inferiore rispetto alla passata edizione.” E difatti rispetto alla prima edizione di Nanni Moretti, questo esordio di Gianni Amelio alla direzione del Festival “segna un passo avanti di oltre il 24%”. E’ probabile. Ma la sensazione è che comunque, anche nella migliore delle statistiche in favore di questo TFF, il fantasma di Moretti continuerà beffardamente ad aggirarsi fra la Mole e Piazza Vittorio, costringendo i nuovi addetti ai lavori a guardare indietro piuttosto che avanti. Come una sorta di complesso d’inferiorità non ancora superato completamente, che rischia oltretutto di influenzare il giudizio complessivo delle proiezioni nelle sale. Un giudizio artistico ancora in fase di elaborazione per la gran parte delle persone, che per ora si tengono cauti. Fino ad ieri il commento più gettonato fra pubblico e giornalisti dopo la visione di un film (in concorso o meno) è sempre stato lo stesso: “non mi ha annoiato”. Il che vuole dire tutto ma anche poco, se non niente. Intanto sullo sfondo della kermesse scoppia una polemica a distanza. Le agenzie di stampa stamani hanno battuto una notizia che promette tuoni e fulmini fra la città di Roma e di Torino, più precisamente fra i rispettivi Festival del Cinema. Sembra che Roma nel 2010 voglia posticipare il suo calendario, costringendo di conseguenza Torino ad allungare ulteriormente i tempi d’inizio del Festival e mettendo a rischio il “Sottodiciotto”, rassegna che si tiene di consueto qualche settimana successiva al TFF. Una decisione che ha fatto sbottare il direttore del Museo del Cinema di Torino Alberto Barbera che ha usato parole dure, puntando il dito contro “l’arroganza” del Festival di Roma. Uno sgarbo vero e proprio che non va giù a molti. E se qualcuno sussurra che il TFF, con una sorta di balzo d’orgoglio, potrebbe, per la prima volta, anticipare il Festival di Roma appena dopo Venezia, Gianni Amelio in conferenza stampa si affretta a dire che le date devono ancora essere decise. Quello che rimane di certo per adesso è un siluro lanciato dalla Capitale che esplode sul TFF, proprio nel bel mezzo della rassegna. Una polemica in cui sono subito gettati a capofitto gli avvoltoi politici di turno, su tutti la Lega Nord.
Ritornando alle proiezioni, stasera è stato presentato il primo film in concorso targato belpaese. La bocca del lupo, del giovane Pietro Marcello, già apprezzatissimo al suo esordio con Il passaggio della linea. Amelio, presentando il film in sala, ha dichiarato di aver “lottato con i denti” per portare la pellicola al TFF, cullandola quasi come un figlio riconosciuto. Il perché lo capiremo soltanto poco più di un’ora dopo, incantati dalla bellezza dell’opera che abbiamo appena visto: forse la prima vera svolta capolavoriale di questo Festival. Un documentario che attraversa l’Italia, la città di Genova e una favola maledetta ma a il lieto fine. Come una storia che sembra quasi essere uscita fuori da una canzone – mai stata scritta – di Fabrizio De André: con tutta una sua “goccia di splendore”, che non è nè lacrima di commozione né di pietà, ma è più la schiuma di un’onda che si frantuma sugli scogli, arrivando alla liberazione da una condanna che la imprigionava al mare. Lo stesso mare novecentesco “dove iniziano le avventure”, belle e brutte, della vita degli uomini.
La narrazione documentata è quella personale di Enzo Baffo, calabrese trapiantato a Genova, costretto alla delinquenza dal padre e a 14 anni di galera per aver sparato su una pattuglia della polizia. In carcere scoppia l’amore – ricambiato – verso Mary, transessuale tossicomane, una pasoliniana anima gemella ed un angelo laico senza sesso, che sa leggere l’umanità nelle rughe e nei muscoli arcaici di Enzo, (“gigante” dal cuore dolce) più di ogni altra persona di questo mondo. Due personaggi straordinari nei gesti e nei volti, nelle dolcezze e nelle fragilità; perfino nei modi burberi di apostrofarsi con insulti per poi chiamarsi “amore”. Straordinari nella loro stessa vita, che ha reso i loro sogni una realtà, non come naufragio ma come attracco finale, pace e beatificazione suprema. Ci si chiede se una coppia del genere esiste veramente, ma basta allungare lo sguardo in sala e vederli seduti poco più avanti di noi, a seguire la trasposizione filmica della loro incredibile storia. Fin da adesso Enzo e Mary sono da decretare come migliori attori protagonisti di tutto il Festival: perché toccandoli non si sfiora solo la storia del cinema, ma la storia di un’Italia scomparsa con il secolo scorso, e che riusciamo soltanto a intravedere nella splendida opera di Marcello, intervallata da immagini di repertorio – potentissime – di una Genova novecentesca, fra fonderie operaie e carruggi quasi mistici. Come conclude la citazione di Fortini: “è successo…” E probabilmente, ce ne convinciamo presto, non potrebbe succedere adesso, non certo nell’epoca della disillusione sentimentale e della “life in plastic” che domina la società in cui viviamo oggi. E’ allora che la nostalgia per un secolo – forse troppo presto gettato alle nostre spalle – ci devasta dentro più di ogni altra cosa, appena dopo la tenerezza fatta risata che la coppia protagonista riesce a trasmettere nell’intervista finale.
In conclusione, il documentario di Marcello emerge davvero come uno di lavori più profondi visti fin’ora al Festival e, come da programma, probabilmente non riuscirà a trovare una distribuzione nelle sale italiane. Eppure rimane un brillante esempio di come il nostro cinema riesca a toccare vette inarrivabili (e inascoltabili da altri) attraverso la trasfigurazione semplice ma estremamente poetica di una storia d’amore tanto surreale quanto neorealista, che riesce a dipingere la salvezza come una miseria e, viceversa, la miseria come una salvezza.
A cura di Daniele Lombardi
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