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Io ricordo

Io ricordo

Non è riassumendo la trama di Gli abbracci spezzati, quasi irraccontabile per la sua complessità, che si può far comprendere il senso di questo film. In spiccioli, Gli abbracci spezzati racconta la storia della complessa realizzazione di un film intitolato Chicas e Maletas (Ragazze e valigie), e della storia d’amore esplosa tra il regista Mateo Blanco e la sua attrice Lena, prima amante e poi moglie del produttore del film, della loro fuga d’amore a Lanzarote terminata tragicamente con la morte di lei e la cecità di lui, e dei ricordi che, molti anni dopo, tornano nella mente del regista (che ora si è trasformato nello sceneggiatore Harry Caine) che gli permetteranno di completare la lavorazione del film, accantonata nella fase di montaggio, dopo la morte di lei.
Non è quindi nella complessità della trama che si può individuare la forza, la potenza, la passione di questo film, che lo rendono tra i più importanti e significativi della recente produzione del regista spagnolo (decisamente notevole l’ultimo Volver, un po’ meno convincente, ma pur sempre suggestivo, invece La mala educación). Certamente, ad una prima visione, questo film è parso privo di debolezze, concessioni, cadute anche se a Cannes non ha raccolto troppi applausi.

Gli abbracci spezzati trova spazio con comodità nel tumultuoso e sentimentale e grottesco universo cinematografico creato dal Pedro Almodovar perché è un film di cinema, dell’immagine di sé, della potenza e dell’immaginazione dello sguardo, il film di un amore passionale costretto a confrontarsi col tempo, coi sogni distrutti, con la morte e con la speranza di un eterno ritorno incancellabile.
Il film è costruito su due piani narrativi (presente e passato) e su due piani spettacolari (la realtà e la finzione). Almodovar, che è un uomo intelligente, che ama solo sceneggiature corrosive e per lo più inerenti a fatti della propria vita (e qui tutti i riferimenti cinefili non sono mai snob e gratuiti), che ha fatto del suo cinema il luogo ideale di storie assurde e paradossali, colorate e sconvolgenti, sentimentali e illuminanti, modulate principalmente sulle corde di due registri audaci come il noir e il melodramma, con Gli abbracci spezzati sembra voglia stabilire con lo spettatore, fin dalle prime sequenze, un rapporto di attesa basato sull’immaginazione e la creatività. La cecità del suo protagonista (un regista piuttosto affascinante ma avanti con l’età, che ora ha cambiato nome e, soprattutto, professione – ora, infatti, racconta con le parole e non più con le immagini), già durante la sequenza iniziale, quella che lo vede impegnato con una bellissima donna prima in un corteggiamento, poi in un intenso e soddisfatto (per lei, soprattutto) rapporto sessuale, si presenta subito per lo spettatore come una condizione da assumere, una maschera da indossare, una situazione da vivere. Lo spettatore, infatti, per conoscere il passato del regista è chiamato ad immaginarsi tutto, proprio come un cieco davanti alla nudità di una donna, proprio come uno spettatore a cui è impedito di vedere cosa succede sul divano dal quale provengono le urla e gli ansimi di godimento. Si provano le stesse sensazioni anche quando Harry-Mateo decide di dare una nuova forma al suo film, dando nuova vita a Lena. In quel preciso momento è la voce di Lena a fare da guida, a condurre Harry-Mateo, ma pure lo spettatore, verso la verità e la conclusione del film. E la voce (originale) di Penelope Cruz (se, per caso, non siete interessati alla sua bellezza) vale il prezzo del biglietto (rimando e tramite ideale alla voce di Jeanne Moreau presente in una scena di Ascensore per il patibolo, visione che aiuterà Harry a superare un momento di crisi).
Si diffonde così in tutto il film un’atmosfera carica di tensioni e sentimento che lo spettatore vive sulla propria pelle come se fosse un protagonista del film. E sulla base di questa duplicità visiva (di scambio e scontro/incontro) Almodovar costruisce un vortice di angoscia/morte e felicità/amore confermando, anzi ribadendo, quello che aveva voluto stabilire e definire già in Volver. Ovvero una rivisitazione delle proprie ossessioni attraverso un registro più maturo, una riflessione più seria, addirittura un maggiore coinvolgimento emotivo.

Ma forse questo discorso è valido fin dai tempi di Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) perché sembra che Almodovar dosi lo humour in funzione di una messa in scena più credibile, più profonda. Se prima i riferimenti, le citazioni, gli omaggi erano declinati verso un maestro come Bunuel (un esempio è certamente Carne Trèmula, 1997), ora il regista spagnolo sembra più interessato e rivolto alla forma perfetta del cinema di Hitchcock. Forse non è così, o forse è sempre stato così, ma di fatto una delle espressioni cinematografiche più forti e ricche di significati presenti nel panorama europeo attuale è offerta da Pedro Almodovar. Anche grazie a questo film. Di cui si potrebbero scrivere tante altre cose.

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