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cultura dell'immagine e della parola

Quando l’action movie
è svogliato

A quattro mesi dall’uscita di Uomini che odiano le donne, il secondo capitolo larssoniano giunge nelle sale anziché entrare nelle case europee sotto forma di film tv. Il successo insperato del primo episodio ha permesso, infatti, di reindirizzare verso il grande schermo il prodotto destinato in origine al tubo catodico. Il cambio di regia da Niels Ander Oplev a Daniel Alfrendon invece è balzato prepotentemente all’attenzione degli spettatori.

In questo caso, ancora più che nel già crudo primo capitolo, nel narrare le vicende di Lisbeth si riscontra un certo gusto per l’audacia delle immagini anche quando non strettamente necessario: se nel primo film si metteva in scena la crudeltà dello stupro, qui si indugia inutilmente sul rapporto lesbico con Miriam Wu e altrove ci si diletta a enfatizzare gli aspetti macabri con inquadrature ad hoc. Alfredson cerca di dare un taglio dinamico alla storia adattandola a un film d’azione più che a un giallo vecchia maniera com’era, di fatto, il primo episodio. Questa volontà si perde nella titubanza della scelta tra una logorroica fedeltà al testo e una stringatezza penalizzante. Alcune scelte di regia sono condivisibili, come l’eliminazione dell’incipit ambientato ai Caraibi e della passione della protagonista per la matematica, che nel volume fa da filo conduttore. In entrambi i casi si tratta di elementi difficilmente trasponibili per mancanza di tempo e per difficoltà di realizzazione. Meno accettabile è la superficialità con cui si descrivono le relazioni tra i personaggi, che talvolta paiono tagliati con l’accetta. Manca la promiscuità sessuale di Blomkvist, che viene anche trasformato in uno scapolo d’oro nel tentativo di semplificare il quadro. Manca la minuziosa spiegazione dei rapporti all’interno della polizia, che si trova in secondo piano. Manca la tensione che attanaglia il lettore mentre ancora non sa se la sua eroina sia un soggetto problematico o la vittima di una società oscurantista e corrotta.

L’intento polemico di Larsson nei confronti dei misogini, degli sfruttatori e dei trafficanti, si perde del tutto nel tentativo di legare lo spettatore ai personaggi principali. I criminali non sono una piaga della Svezia, ma si riducono ad antagonisti della Salander e non offrono spunti di riflessioni sulla società svedese come invece accade nei romanzi. Si cerca in compenso di valorizzare la fiducia di Michael verso la hacker, mettendo in risalto la sua lotta contro l’opinione pubblica che la colpevolizza a priori. Le visioni della protagonista richiamano atmosfere da film horror senza che però si crei un coinvolgimento emotivo dello spettatore. Il suo passato travagliato non viene portato alla luce in un crescendo di colpi di scena, bensì viene rivelato frettolosamente. La suspense che permeava la vicenda della famiglia Vanger è assente, complice [img4]anche un Mikael Niqvist dall’interpretazione sempre più sottotono. Si salva la bravissima Noomi Rapace, incarnazione esemplare dell’eroina bistrattata dal sesso forte, perfetta in ogni scena. Così come risultano adatti alla parte Micke Spreiz e Paolo Roberto, vero pugile professionista chiamato a impersonare se stesso. Purtroppo il cast adeguato limita solo in parte i danni di una sceneggiatura non adatta alla televisione per la crudezza di alcuni contenuti e troppo fiacca per il cinema.
Una domanda destinata a non avere mai risposta prende allora forma nella mente dello spettatore deluso: una produzione Hollywoodiana avrebbe potuto salvare l’opera dello scrittore? O l’avrebbe ulteriormente snaturata?

La ragazza che giocava col fuoco, romanzo di Stieg Larsson
La ragazza che giocava col fuoco, regia di Daniel Alfredson

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