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cultura dell'immagine e della parola

Intervista a
Michael Mann

In occasione della presentazione italiana del suo nuovo film, Nemico pubblico, Michael Mann ha incontrato la stampa a Roma. Ecco le sue parole.

Il suo è un cinema della sfida, che ancora una volta ci propone un confronto tra due uomini che seguono ideali diversi. Come è riuscito nel 2009 a fare un fim classico e così sperimentale al contempo?

Non so bene come questo film si inserisca nella mia filmografia. Io sono stato molto affascinato dal concetto di questa vita che ha brillato per un tempo brevissimo. Mi sono molto interessato all’idea di immaginarla e, se possibile, di immergere il pubblico all’interno dell’esperienza di un personaggio come Dillinger cercando di riportarlo in vita. Se il film funziona ci si trasferisce nella sua esperienza e questa è la magia del cinema, che ci consente di vedere le cose dall’interno. Io volevo vedere Johnny Depp in un ruolo simile, un ruolo che portasse in superficie le emozioni di Dillinger. E’ stata una sfida.

Durante le riprese avete avuto in mano gli oggetti di Dillinger. Come è nato il film, vi siete ispirati a cose vere, per le leggende siete andati a scavare o vi siete solo attenuti al libro?

Amo molto fare film d’epoca, e quando li giro mi chiedo come possiamo sentirci trasportati in quegli specifici momenti, giorni e anni. Per me l’imperativo era riuscire ad essere dettagliato per riportare tutti nel 1934, in quel momento a quella specifica ora, far sentire che quel personaggio era vivo… volevo riportare in vita il presente che è un passato ma con una simulazione molto forte, in modo che noi del pubblico potessimo viverla come una realtà. Come pensavano questi personaggi? Io ho cercato di capire la psicologia di quel periodo, come Billie potesse affidarsi alla fede; ho sempre amato gli anni Trenta e la fede era importante perchè questa gang affermava di agire sempre come se si trattasse di piccole operazioni militari, senza avere progetti per il futuro, per cui sapevano che alla fine il destino avrebbe fatto il suo corso. Non c’era nessun piano di fuga all’estero e questo mi ha affascinato, mi ha affascinato usare delle frasi che usavano loro, come: “bisogna fare ciò che si fa divertendosi”. Io sono cresciuto proprio nella zona dove c’era il Biograph, ho visto cosa veniva proiettato in quel cinema e la storia di Dillinger mi era molto familiare: quando passavamo lì davanti mio padre mi raccontava spesso la sua storia. Con lui non c’era una donna in rosso, ma con gonna e camicetta, quel dettaglio faceva parte della leggenda.
Quando con Johny Depp siamo entrati al Little Bohemia Lodge nella stanza che lo aveva ospitato, ci siamo sentiti molto emozionati, perchè contribuiva all’immedesimazione. Stessa cosa vale per Bale, che era appostato tra gli stessi alberi in cui si era appostato il vero Purvis. Nella parte finale, all’uscita del cinema, morendo Johnny guarda gli stessi mattoni, lo stesso muro che Dillinger aveva visto negli ultimi istanti.

Questo film ricorda molto alcuni western crepuscolari, come Pat Garrett e Billy the Kid, nel suo ritrarre la fine di un mondo con il passaggio dai gangster isolati, eroici, ai cartelli della mafia, allo strutturarsi dell’FBI. C’era l’intento di raccontare un epoca di passaggio?

I punti che ha sottolineato sono parte di una stessa immagine. Credo sia interessante il contesto della sua vita, con i grandi cambiamenti della società dell’epoca, questo mi ha interessato. La liquidità del crimine organizzato ne permise la transizione, la struttura della polizia si stava centralizzando in qualcosa di nuovo, quindi avevamo da un lato la polizia federale, dall’altro il crimine organizzato, entrambi contro Dillinger e parte di uno stesso contesto. Ma questa non è la storia che racconto, è solo parte del contesto del tempo. Quello che muoveva Dillinger, e che mi ha interessato, era la sua sete di vita: un uomo giovane, chiuso in prigione per dieci anni, che esce e vuole tutto subito e il fatto che tutto sia avvenuto in nove settimane, questo ha creato la sua leggenda.

Una cosa interessante è come ha saputo portarci, grazie all’uso del digitale, all’interno di una guerra in cui sembra di essere in prima linea. Come ha lavorato, la incuriosisce anche il 3D?

Mi piacerebbe avere il dialogo in 3D. Immergendo il pubblico in uno stato di guerra si ha coinvolgimento. Abbiamo scelto di usare il digitale una notte di pioggia a L.A.: avevamo una buick e delle comparse vestite con i costumi di scena, le abbiamo messe contro il muro ed effettuato una ripresa sia in digitale che in pellicola. Il primo restituiva appieno la realtà di quello che avveniva in quel momento, mentre la pellicola dava il sapore del tempo passato. Essenziale è stato anche far diventare protagoniste le armi: il museo di arte moderna ha queste mitragliatrici che sono effettivamente oggetti di grande arte. Quando le si usa se ne sente il rumore, la forza, si riesce a capire cosa si provava in quel momento. Ci siamo concentrati su suono, immagine, tutto quello che c’era in quella situazione. Si coinvolgono gli attori, ad esempio quando si guida un’auto del 1930 la sensazione è diversa dal guidarne una moderna, e per un breve momento si ha la sensazione di stare lì: abbiamo cercato di far sì che tutto fosse reale.

[img3v]Si tratta di una storia già raccontata, ma le altre volte viene descritta come l’uscita dalla grande depressione. C’è in questo caso un legame con la realtà odierna?

Si tratta in realtà di una coincidenza sfortunata, non è stata la crisi economica globale il motivo che mi ha spinto a girarla. Spesso ci si riferisce ad una storia in particolare perchè c’è un aggancio con la realtà, io sono interessato agli anni Trenta da molto tempo, ho anche progetti che riguardano Parigi e la Spagna in quegli anni, i miei genitori li hanno vissuti e mi hanno raccontato come fosse viverci, lo stessi XXI secolo è nato dalla depressione che ha generato le forze che ci hanno mandato avanti.

Elemento ricorrente nella sua filmografia è il protagonista che prende tempo per la riflessione. Qui questo momento emotivamente catartico sembra venire negato, è come se il protagonista fosse svuotato dall’elemento emotivo.

Per me era importante quello che era nella sua mente: mi immagino seduto al suo posto nel Biograph, lo guardo mentre guarda il grande schermo, lui era l’eroe negativo del tempo, sempre sui giornali e si rivede nei panni di Gable che era in effetti modellato su di lui. Cosa penserò in quel momento, quali saranno le mie emozioni? E’ questo il punto focale della scena e la chiusura del film: sarebbe stato riduttivo aggiungere un dialogo, o un voice over che ne esplicitasse i pensieri. Volevo che il pubblico immaginasse ciò che Dillinger provava e vedeva.

Ai tempi di Collateral ha dichiarato che era molto faticoso girare con attrezzature così ingombranti. Oggi è diverso, è per questo che usa il digitale? O solo per restituire quel senso di immediatezza, come ci ha detto?

In effetti è diventato più semplice, ma per me il vantaggio principale è ciò che il digitale mi consente di fare, 8-9 volte di più che con la pellicola. Lì bisogna sottostare alla chimica, qui ho più capacità di intervento, una qualità che punta al dettaglio, ma il digitale è utilizzabile anche in modo che non si veda la differenza con l’analogico. Il che, però, non significa che non tornerò alla pellicola, che mi piace molto. Vorrei tornare alla domanda precedente per rispondere al meglio: quando Dillinger siede nel cinema, sente che il suo tempo è giunto altermine? Se sì, come reagisce? Quando cammina fuori dal Biograph, è una liberazione, perchè sa che il suo percorso si è concluso: questo volevamo esprimere io e Johnny.

Questo film è libero dal peso psicologico del cinema passato: è un approccio interessante perchè il protagonista non viene eroicizzato attraverso il racconto dei suoi problemi. E’ una nuova chiave per raccontare un personaggio negativo?

Io volevo immergermi nella vita di Dillinger con le sue contraddizioni, non raccontarne l’infanzia e il passato come in una biografia. Non si sa niente del suo passato, ma i dettagli ci fanno entrare nel personaggio: all’inizio c’è l’abbandono del suo mentore, e si percepisce l’intensità del collegamento con quell’uomo. Anche quando fa evadere i suoi amici, comprendiamo il suo mondo emotivo, si apprende qualcosa di lui, anche se il pubblico non se ne rende conto. Questa è stata la sfida intriore che mi ha motivato.

Quanto ha pesato la manipolazione dell’opinione pubblica nel trattamento del soggetto?

E’ così che inizia storicamente. La manipolazione dei media inizia con una grande propaganda in maniera del tutto innovativa: nel 1929 a collegare l’America è la Radio, mentre nel 1933 tutti andavano al cinema. Avviene qualcosa nei cinema di tutto il paese, e Hoover lo usa: invece di usare i media, manda tramite il grande schermo un’informazione in tutto il paese. Nessuno lo aveva mai fatto prima. E’ un personaggio estremamente innovativo, mentre Dillinger sta diventando obsoleto, perchè il mondo va avanti. Lui è il meglio del suo genere, ma è solo. Non si tratta di un tema nuovo, [img4]lo troviamo già ne Il mucchio selvaggio.

Cosa ha chiesto a Depp e Bale per il faccia a faccia? E in generale, come lavora con gli attori?

Lavoro in maniera tradizionale, faccio sì che si immergano nel personaggio, che ci siano esperienze che li trasportano in quel momento e li facciano pensare come loro. E loro sono straordinari e immediati. Noi abbiamo cercato di apprendere il più possibile da quello che avevamo: con Johnny siamo andati a Crown Point mentre con Bale, abbiamo cercato di trasformarlo realmente in un aristocratico del Sud degli anni Trenta come era Purvis.

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