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Venezia, i film:
Lebanon

Talvolta qualcuno dice che un’idea, seppur particolare, non faccia un film. E in un certo senso questo è vero, talvolta no. È il caso di Lebanon, del regista israeliano Samuel Maoz, pellicola in concorso e presentata stasera in anteprima mondiale alla stampa. Lo scenario è quello della Prima Guerra del Libano, iniziata nel giugno 1982. La storia è quella di quattro giovani, che dalla leva militare si ritrovano proiettati in uno dei conflitti più drammatici, rinchiusi però in un carro armato: c’è Schmuel che fa l’artigliere, Assi il capocarro, Herzl il sergente e Yigal il pilota del mezzo. Ma loro la guerra la vedono e la sentono solo da dentro il blindato, attraverso il periscopio. Piangono, soffrono, cercano di farsi coraggio l’un l’altro, la loro è una lotta per la sopravvivenza, è una guerra contro un nemico con cui non si sentono ancora in grado di combattere.

Là fuori si muore: i compagni (troppi), i nemici, i civili inermi. Prima silenzio, poi fragore, prima buio, poi la luce delle armi. C’è una donna che cerca la figlia di cinque anni, loro la vedono, la osservano vagare disperata tra le macerie, ancora non sa quello che invece la radio ha già freddamente comunicato: la morte. Scene come queste li segnano, li piegano, nello spirito e nel corpo, ma loro hanno il dovere di proseguire, di rispettare gli ordini, di sparare. Sono amici, anche se non se lo dicono sinceramente. E quando uno dei superiori consegna loro un ostaggio siriano (anomalo in una guerra tra Israele e Libano) non lo torturano come farebbero altri, se ne preoccupano, lo guardano con compassione. Ma la morte c’è, è in agguato per qualcuno di loro, che purtroppo non ce la farà. C’è claustrofobia di ripresa, ma quasi non ce ne accorgiamo. La regia è intelligente, mostra volti, sguardi, primi piani intensi, irriconoscibili fango e sangue. Solo alla fine, dopo tanta oscurità, il coperchio si apre. Escono dal mezzo, ritrovandosi in un campo di girasoli, lo stesso campo che aveva dato l’avvio al film. È quel tono di colore, dopo tanta sofferenza e cupezza.Parlare di Lebanon è facile, perché è semplicemente un film straordinario, necessario.

È soprattutto un film particolare per il regista, che il 6 giugno 1982, a 20 anni, uccideva, combatteva lui stesso questa guerra nel Corpo Corazzato, e che oggi, dopo aver scritto la sceneggiatura e girato la pellicola, finalmente si libera di quel peso che l’ha ossessionato per tanto, troppo tempo. Venezia, che ha già accolto con favore capolavori di guerra, talvolta premiandoli, come Redacted di Brian De Palma, talvolta ignorandoli come l’anno scorso The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, questa volta non può essere indifferente. Lebanon ha una forza maggiore, che merita di essere riconosciuta. Profumo di Leone d’Oro.

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