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Schegge da Cannes
I verdetti

Michael Haneke con la Palma d'oro appena conquistata a CannesScheggia 1 di Giampiero Raganelli

Una Palma d’oro assolutamente condivisibile, quella assegnata dalla Giuria, presieduta da Isabelle Huppert, al film Das weisse band di Michael Haneke. Si tratta di un film emotivamente devastante, che segna una tappa importante nella filmografia, già ricca di opere importanti, del cineasta austriaco. La Giuria deve aver riconosciuto che, a differenza di molti suoi colleghi in concorso, come Almodovar, Ang Lee e Tsai Ming-Liang, Haneke non si è seduto sugli allori di percorsi autoriali consolidati, e ben noti al pubblico, ma ha saputo creare qualcosa di profondamente innovativo rispetto alla sua opera. Abbandonando il discorso dei video e della riproduzione delle immagini, il regista ci fa sprofondare in una realtà apparentemente tranquilla e ordinata, in mezzo a immense distese di grano fotografate in un meraviglioso bianco e nero, dove aleggiano mostri spaventosi. Fa piacere anche il premio alla miglior regia dato a Brillante Mendoza, un riconoscimento alla sua macchina a mano che si infila nelle strade affollate e caotiche di Manila.

Ma non si può esprimere un forte dissenso rispetto alla totale esclusione da qualsiasi premio di Vincere di Marco Bellocchio, un film densissimo di significati e spunti di riflessione. Forse i giurati non hanno saputo andare oltre il discorso storiografico, che però rappresenta solo il livello superficiale del film. E pure contestabile il non aver premiato Filippo Timi come migliore attore. Una scelta importante, e giusta, è stata quella di non dare premi ad Antichrist, quella che si presentava come l’opera più pretenziosa del suo regista Lars Von Trier, concepita come uno pugno nello stomaco. Un film che o si ama o si detesta, non sono possibili vie di mezzo, e la Giuria, non premiandolo, ha scelto evidentemente la seconda opzione. Vero è che è stata premiata la sua protagonista Charlotte Gainsbourg, anche se è lecito chiedersi se il riconoscimento tenga conto dell’abilità di masturbarsi mostrata dall’attrice in tutto il film, in un contesto che appare decisamente misogino.

Per Un certain regard premiati due bei film, che avevamo segnalato nei nostri reportage giornalieri, l’iraniano No One Knows About Persian Cats di Bahman Ghobadi e Le pere de mes enfants della giovane francese Mia Hansen-Love, già acclamata dall’intellighenzia d’oltralpe. Infine non si può essere che soddisfatti del premio dato, nell’ambito della Quinzaine des Réalisateurs, a Le roi de l’évasion di Alain Guiraudie, un film che si segnala per il modo ironico e innovativo di concepire le scene di sesso.

Scheggia 2 di Andrea Giordano

Tutto come previsto, o quasi. La 62sima edizione del Festival di Cannes mantiene le promesse della vigilia e consegna la Palma d’oro al film, peraltro meritatissimo, di Michael Haneke, Il nastro bianco (acquistato e distribuito in Italia dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti). L’orrore del nazismo, visto in bianco e nero, attraverso gli occhi dei bambini, ha conquistato la giuria, in primis, la presidente, quella Isabelle Huppert, che proprio con una pellicola di Haneke, La pianista, aveva vinto il premio come miglior attrice nel 2001 (anche Gran Premio della Giuria) sulla Croisette. Una bella “coincidenza” questo premio, (prima dell’inizio della kermesse il nome del regista austriaco era già tra i favoriti) ma si sa che le produzioni, i registi e gli attori, possono “intersecarsi” più facilmente in contesti festivalieri, ma siamo certi della buona fede della giuria, una delle caratteristiche fondamentali, quasi da sempre, di Cannes.

In ogni modo Haneke, dopo i riconoscimenti del 2005 per Cachè (premio anche alla regia), torna a conquistare Cannes e lo fa con una pellicola potente, importante, agghiacciante per certi versi, certamente non seconda a quelle viste nel concorso principale, e che ci racconta il Male più nascosto, più radicato, un male, a detta del regista, che si nasconde nell’assenza di passioni.
Meritato indubbiamente anche il Grand Prix per il film francese Un prophéte di Jacques Audiard, in ballo con Haneke fino alla fine per la Palma. Dopo il trionfo dell’anno scorso con La classe di Laurent Cantet, il cinema francese ha presentato indubbiamente opere molto intense, quella di Audiard in primis, che era impossibile da ignorare. Francia premiata anche per l’interpretazione femminile, premio andato a Charlotte Gainsbourg, per la sua estrema e difficile interpretazione in Antichrist di Lars Von Trier, che dopo Bjork in Dancer in the Dark, fa vincere nuovamente un premio a una delle sue attrici. C’è da dire però che questa interpretazione non ha convinto proprio tutti, poiché troppo teatrale, gridata, eccessiva, fastidiosa. Il contesto certo necessitava un’ interpretazione vigorosa, ma non siamo certi che fosse quella da premiare. Meritato invece il premio al miglior attore andato a Christoph Waltz, l’ufficiale nazista di Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino. La sua è la vera “sorpresa”, se vogliamo chiamarla così, più lieta del Festival. Una recitazione affascinante e cinica, in una pellicola articolata, che lo ha visto essere protagonista dall’inizio alla fine. Davvero bravo, ma bravissimo anche Tarantino a dirigerlo e ad indirizzarlo. È un riconoscimento all’attore, ma in qualche modo anche al film, totalmente snobbato per i premi più importanti.

Veniamo alle note dolenti, parlando dell’esclusione incredibile di Ken Loach, con Looking for Eric, e di Vincere di Marco Bellocchio. Il film di Loach, uno dei più apprezzati dell’intera rassegna, meritava almeno il premio alla sceneggiatura, riconoscimento che è andato invece al film Spring Fever di Ye Lou. Nulla da fare neanche per l’Italia, rappresentata oltre che da Bellocchio, anche dal manifesto della kermesse (scena tratta da L’avventura di Antognoni) e da Asia Argento in giuria ufficiale, dopo i doppi successi dell’anno scorso, non riesce in questa edizione a conquistare un premio. La pellicola di Bellocchio per come è stata costruita e diretta meritava il riconoscimento alla regia, che sarebbe stato un giusto “risarcimento” per un autore importante, e che a Cannes ha saputo fare la storia, riuscendo ad essere selezionato, negli anni, in tutte le sezioni del concorso. La regia è andata invece a Brillante Mendoza per Kinatay, film mediocre a mio parere, ma che ha convinto invece pienamente la giuria. Il Premio della Giuria infine è andato ex – aequo a Fish Tank di Andrea Arnold (giusto) e a Thirst di Park Chan-wook (per niente condivisibile). Scontato il riconoscimento speciale attribuito dalla giuria al grande Alain Resnais (quasi 87 anni), che in concorso presentava Les Herbes Folle. E Almodóvar e Jane Campion? Neanche considerati. Rammarico anche per l’esclusione del film di Elia Suleiman, The Time That Remains, una delle cose più interessanti viste a Cannes, e per Giovanna Mezzogiorno, alla quale sarebbe potuto benissimo andare il premio come miglior attrice. Insomma dei verdetti un po’ “deboli” che convincono in parte. Rimane la qualità del programma, una delle migliori degli ultimi anni, il caldo e la caoticità invece insopportabili, le lunghe code di fronte alla Sala Debussy o al Grand Théâtre Lumière, le decine di fotografi (anche “abusivi”) sparpagliati, e non, in ogni angolo del Boulevard de la Croisette, e un’organizzazione di prim’ordine. L’appuntamento è all’anno prossimo, merci Cannes!

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