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La notte delle ostriche

La notte delle ostriche

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Oyster Farmer è il primo lungometraggio di Anna Reeves: un piccolo film, semplice e delicato che vive di due elementi essenziali, le musiche country e la bellezza del paesaggio incontaminato, rappresentato dal Hawkesbury River, imponente fiume con le sue anse e i suoi isolotti, nel Sud dell’Australia. La fotografia però non si riduce a alle immagini stucchevoli, alla National Geographic. Gli imponenti scenari naturali sono essi stessi i protagonisti del film, insieme alle comunità che li popola. Il punto centrale è proprio questo: ritrarre un mondo bucolico, fatto di persone semplici e lontane dai ritmi frenetici e ansiogeni delle grandi città.

Tutta la vicenda della rapina e del mancato recapito del pacco con il bottino, risulta un puro espediente narrativo, il classico McGuffin hitchcockiano, che, invece di creare tensione, serve da pretesto per esplorare quel mondo. La Reeves riesce comunque a evitare di scadere nel semplice manicheismo natura / civiltà. La vita del villaggio non è rappresentata come una realtà idilliaca. I suoi abitanti sono villici e burini e il loro è un linguaggio rude, infarcito di slang. E’ gente operosa, che ha però il tempo libero per bere una birra o dedicarsi alla pesca. E’ un mondo tradizionale, fatto di feste con palloncini colorati, barbecue e bizzarre corse di cani nell’acqua, nel quale sopravvive ancora il gusto delle piccole cose della vita quotidiana. Sembra ignorare l’avidità, l’attaccamento al denaro, il senso della proprietà privata, caratteristiche della civiltà moderna. Per darne un ritratto autentico, sono stati impiegati in ruoli minori veri allevatori di ostriche, che offrono una testimonianza palpabile della loro civiltà rurale.

Il film è una sorta di romanzo di formazione del giovane protagonista, un rapinatore per necessità, che scopre il piacere della vita semplice. La sua storia d’amore è raccontata con molta delicatezza e con un crescendo di tensione erotica. Elementi questi che la regista sa dosare con maestria, senza mai eccedere. Così come non eccede con l’inserimento di riferimenti alla guerra del Vietnam, che rappresentano i fantasmi di una tragedia atroce, e si manifestano anche in quel limbo, solo apparentemente fuori dal mondo e dalla Storia. Sarebbe facile, con tali tematiche, riproporre la tematica della fuga, come nel primo Salvatores. La Reeves riesce invece a evitare la fascinazione facile, legata all’esotismo melenso e turistico. La superba rappresentazione dei paesaggi naturali è complementare al ritratto della gente che li abita. Un ottimo debutto alla di regia, insomma, per un film ingiustamente ignorato dai distributori italiani.

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