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Era meglio non farlo

Era meglio non farlo

Si può fare è un film dal contenuto politico manifesto, evidente quanto semplicistico. La chiave del film sta nell’aver spostato la storia vera della cooperativa sociale Noncello da Pordenone a Milano, caricandola di significati simbolici, che l’ambiente provinciale avrebbe difficilmente potuto fornire. Nel 1983 si è nel bel mezzo della “Milano da bere”, in un clima euforico, di disimpegno politico, vuoto, privo di ideali. Gli anni Settanta, con i loro fermenti rivoluzionari e le loro istanze sociali, sono stati ormai lasciati alle spalle e la morte di Enrico Berlinguer, citata nel film, ha suggellato questo passaggio. Siamo entrati ormai nell’era del craxismo e dell’edonismo reaganiano. Nel film si fa riferimento a due personaggi, invitati all’inaugurazione dell’atelier, emblematici di quegli anni: Paolo Pillitteri ed Eleonora Brigliadori. Il primo era sindaco della Milano da bere e cognato di Craxi, la seconda annunciatrice e volto simbolo della TV di Berlusconi, segno quindi che il male che affligge l’Italia di oggi è partito da lì. La cooperativa creata da Bisio appare quindi come un atto di resistenza umana in quegli anni bui, come l’espressione realizzata di una delle più importanti istanze sessantottine, l’antipsichiatria di Basaglia.

Tutto molto semplice e schematico. Perché nessuno ricorda che il metodo di Basaglia aveva generato anche qualche controversia, come quella, circostanziata e degna di essere presa in considerazione, portata avanti dallo scrittore medico Mario Tobino? Alcune metafore poi appaiono fin troppo semplici e grossolane. Come non notare la carica simbolica che si dà al motto dell’antipsichiatria “Si può fare”, che ora è diventato lo slogan di Veltroni e Obama. La cooperativa inizia a mietere successi con il parquet a mosaico che riproduce il simbolo delle Brigate Rosse, il committente yuppie non capisce il riferimento e si esalta definendolo naïf. Una specie di cancro quindi che si introduce, non riconosciuto, nel sistema e lo divora dall’interno. Che banalità.

Poco riuscita, per quanto idealmente meritevole, l’idea di aver fatto frequentare agli attori, come training da Actor’s Studio, dei veri malati mentali. I personaggi che ne risultano sembrano dei malati psichiatrici all’acqua di rose, da cui non trapela il minimo senso di sofferenza che provano queste persone. E che dire della fin troppo facile scelta della canzone simbolo del film, L’isola che non c’è di Edoardo Bennato, inneggiante a un’utopia irrealizzabile, ma a cui si deve comunque credere. Peccato che di questa canzone, che pure viene proposta tante volte nel corso del film, non si senta proprio la strofa finale, un emblema dell’assunto del film: «Chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle, forse è ancora più pazzo di te».

Curiosità
Il film si ispira alla storia vera della cooperativa Noncello di Pordenone. Fondata nel 1981 e attiva ancora oggi, conta circa 700 soci lavoratori.

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