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Senza riserve

Senza riserve

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Prodotto dalla HBO, la nota paytv, Bury My Heart at Wounded Knee affronta il tema storico delle guerre indiane, partendo dalle migliori premesse. Adatta infatti quello che può essere considerato il libro definitivo sull’argomento, l’omonimo romanzo di Dee Alexander Brown che, quando uscì nel 1970, fece scalpore per la sua radicalità nel porsi dal punto di vista dei nativi americani. Ne consegue un film ineccepibile dal punto di vista del politically correct, anche se al giorno d’oggi una tale operazione non può definirsi coraggiosa come all’epoca.

Viene correttamente esposta la filosofia di vita degli indigeni senza scadere nell’antropologico. «Every man is a chef» viene spesso ripetuto nel film. Si tratta di una loro massima, incomprensibile per i bianchi abituati a rigide gerarchie di potere. Anche il senatore “buono”, un personaggio apparentemente positivo, risulta a ben vedere semplicemente la figura meno negativa. Il fatto di opporsi allo sterminio delle popolazioni indigene lo mette in buona luce solo fino a un certo punto. Il suo obiettivo è assimilare gli Indiani, addomesticarli, “civilizzarli”, compiendo di fatto un genocidio culturale. Viene irriso il suo tentativo di espropriare la riserva indiana a suon di dollaroni, pensando ingenuamente di fare un buon gesto, nella sua mentalità capitalistica. Spiegare al pubblico americano la vera storia delle guerre indiane è il principale merito del film. Bury My Heart at Wounded Knee ha anche altre frecce, è il caso di dirlo, al suo arco. A partire dal prologo dal respiro magistrale, chiaramente debitore di quel grande capolavoro che è I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, Michael Cimino, 1980). Interessante è anche il discorso sull’iconografia. La celeberrima foto di Toro Seduto viene ricostruita tale quale con il volto dell’attore del film. Tutti i personaggi storici vengono introdotti con simili foto finte d’epoca, che sui titoli di coda vengono accostate alle originali, a sottolineare il realismo dell’operazione.

Bury My Heart at Wounded Knee alla fine però non rifugge alla piattezza da prodotto televisivo. Manca la profondità che il grande cinema degli ultimi anni ha saputo dare a questa tematica, con opere seminali quali The New World (id., Terrence Malick, 2005) o Balla coi lupi (Dances with Wolves, Kevin Costner, 1990). I limiti sono evidenti nel far parlare in inglese i nativi, vista l’ovvia difficoltà nel far digerire, a un pubblico televisivo, i loro linguaggi tradizionali. Va riconosciuto il tentativo di sopperire con le numerose citazioni originali di aforismi tradizionali. Ma nel contesto questi risultano goffi, proprio come quando a pronunciarne uno è il senatore “buono”, che tenta così di convincere i capi tribù recalcitranti a vendere le loro terre. Bury My Heart at Wounded Knee è in definitiva un prodotto indubbiamente ben confezionato, concepito per dare un Memorial Day di pausa a serie come I Soprano ed Entourage.

Curiosità
Il titolo riprende l’ultimo verso della poesia American Names di Stephen Vincent Benet: «I shall not be there. I shall rise and pass. Bury my heart at wounded knee». Il film ha avuto diciassette nomination agli Emmy, portandosi a casa sei premi.

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