Umanità e solitudine
Collocandosi con delicatezza, sobrietà e coerenza artistica all’interno del personalissimo percorso cinematografico di Pupi Avati, Il papà di Giovanna sorprende per diversi motivi.
Innanzitutto è un film intimo e affettuoso. Intimo perché indaga con pudore e intelligenza gli stati d’animo di chi partecipa alla tragedia tracciando profili realistici che riescono a non cadere nel facile tranello macchiettistico. Affettuoso perché ricalca coraggiosamente le intenzioni di tutto il cinema di Avati, destinato a raccontare l’animo dei suoi protagonisti, le complicazioni sentimentali, le conseguenze relazionali, i desideri mancati, gli amori nascosti e taciuti, la felicità della condivisione, i pensieri, la fragilità. Qui è il personaggio di Silvio Orlando l’espressione più affettuosa, lo sconfitto avatiano, incredulo di fronte alla sciagura, ignaro del suo futuro, disposto a qualsiasi cosa pur di amare la propria figlia. Orlando interpreta un personaggio carico di ambiguità affettive che copre di mistero l’intera vicenda: si presenta come un padre generoso, è rappresentato, invece, come un padre che non vuole guardare in faccia la realtà. Avati non è affettuoso solo nel narrare una vicenda carica di emozioni e tensioni. Si distingue pure quando dirige gli attori, confermandosi regista umano che investe nel materiale umano che sceglie. Riscopre e rivalorizza, oltre a Orlando (di cui non si sospettava la bravura), Francesca Neri (già in La cena per farli conoscere) e Alba Rorwacher, e scopre l’intensità drammatica di Ezio Greggio (piccola ma significativa la sua parte), vincendo nuovamente la scommessa “comica” (e la vittoria qui è più clamorosa perché, nei precedenti casi, Albanese, Marcorè e Abatantuono possedevano già un bagaglio attoriale). È un amore dato e ricambiato, che esalta gli attori che lavorano con Avati.
Questo è poi un film prezioso perché recupera certe ossessioni del cinema di Avati senza appesantire lo sviluppo della vicenda. Dalla rielaborazione del genere giallo, impronta distintiva di tutto il cinema avatiano, scandito questa volta da un insistente ed evocativo uso della macchina da presa (grandangolare posta spesso al di sotto del baricentro dei personaggi), all’uso non invadente della musica, dalla finzione storica (anche se a volte fin troppo illustrativo e didascalico), alla cena identificata come momento topico del dialogo o dello scontro, alla casa come icona dell’unione familiare. Poi la malattia, come già in altri film (Il cuore altrove, La seconda notte di nozze, lo stesso La cena per farli conoscere) è qui sviluppata interamente sul corpo di Alba Rorwacher, algida e tenera vittima di un male impossibile da cancellare, maschera dell’adolescenza, riflesso della nostra contemporaneità. Le conseguenze sono riflesse sul personaggio di Orlando (che insegue), di Francesca Neri (che scappa per il peso insostenibile), della gente (che giudica, che chiacchiera, che sbatte il mostro in prima pagina). Poi, ancora, il rapporto padre e figlia. Fatto di attese, illusioni, pretese e delusioni. Un rapporto che Avati rende unico nel suo cinema perché specchio del suo cinema. Si potrebbe addirittura parlare di effetto metacinematografico, in quanto, ogni volta, si assiste ad una rappresentazione finta di ciò dovrebbe essere reale. Nel cinema di Avati, padre e figlia, o padre e figlio, s’inseguono, non si comprendono, lottano, si allontanano e poi, forse, si riabbracciano quando si parlano. Un po’ come il cinema di Avati, che racconta la finzione del reale.
Un film che rappresenta con onestà una tragedia. Che commuove senza impietosire. Che disegna un sogno di unione infranto. Coscientemente con amarezza, occhi e cuore.
Curiosità
In Concorso alla Mostra Internazionale di arte cinematografica di Venezia 2008; Silvio Orlando si è aggiudicato la Coppa Volpi per il migliore attore. A proposito del film, Avati ha detto: “Da qualche tempo ho messo in atto una riflessione sulla figura paterna avvertendo che nel corso degli ultimi anni si è andata via via sempre più sbiadendo. Già con La cena per farli conoscere avevo anticipato questa mia propensione, questa mia curiosità, facendo di un padre distratto nei riguardi di tre figlie generate con altrettante madri diverse il protagonista di quella storia. Oggi ho incentrato la mia attenzione su quella “corsia preferenziale” che intercorre fra una figlia e il di lei padre. Rapporto strettissimo, di grande complicità, che ho sperimentato sulla mia pelle nella mia esperienza di padre”.
A cura di Matteo Mazza
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