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Se telefonando…

Se telefonando…

Chiamamoli corsi e ricorsi della storia o, se abbiamo fatto il liceo, citiamo l’eterno ritorno nietzschano. Sta di fatto che si ripete una situazione già avvenuta. In Giappone si realizza un j-horror, genere di horror nipponici in voga fino a qualche anno fa, che ottiene molto successo. Già in patria i produttori pensano di sfruttare il fenomeno sfornando una serie di sequel. Ne deriva una genealogia che, a un certo punto, comincia a far gola ai produttori americani, i quali decidono di realizzare un remake occidentalizzato, con attori e regista dagli occhi non a mandorla. Inutile dire che ognuno di questi passaggi porta inesorabilmente a uno scadimento di qualità rispetto al film capostipite. E che il più brutto risulta inevitabilmente il remake americano.

Questo è quanto successo con The Ring (Ringu, Hideo Nakata, 1998). Ora a essere saccheggiato è The Call – Non rispondere (Chakushin ari, Takashi Miike, 2003), a sua volta un film che sfrutta il tema di Ringu delle telefonate mortali. Non se ne può più! Tratto da un romanzo dello scrittore Akimoto Yasushi, The Call è una maldestra incursione mainstream dell’enfant terrible del nuovo cinema giapponese, Takashi Miike. Forse è proprio per essere una delle sue prove più inutili, che è stato l’unico suo film a essere distribuito nelle sale italiane. Perché non distribuire questi film tali e quali? I gusti del pubblico del Sol Levante sarebbero sensibilmente diversi da quelli degli occidentali, e ciò che ha successo da loro, non funzionerebbe altrettanto bene da noi. Così dicono i produttori. E allora come si spiega la diffusione mondiale di prodotti come i manga e gli anime? E vogliamo parlare dei sushi bar che impazzano in tutte le nostre città?

Un prologo davvero mozzafiato che vede l’atroce morte di una ragazza nel laghetto di un giardino tipico giapponese. Sarà un caso, ma l’unico riferimento all’origine nipponica della storia è anche l’unica cosa ben girata di un’opera davvero mediocre. Il film si sviluppa poi come un susseguirsi di scene stereotipate trite e ritrite che, in quanto tali, hanno perso qualsiasi capacità di far sobbalzare lo spettatore sulla poltrona. L’operazione che fa il regista Valette consiste nel banalizzare l’assunto di base, semplificare la narrazione a volte un po’ contorta e soprattutto togliere tutte le zone d’ombra che lo rendevano intrigante. Chissà perché si ritiene che al pubblico occidentale deve essere data per forza un spiegazione di tutto. Il risultato, è il caso di dirlo, non può che essere un film troppo “telefonato”.

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