Breve storia del rockumentary
La definizione rockumentary fu coniata dai critici David Eherenstein e Bill Reed per definire quei documentari che trattavano temi legati al mondo della musica rock. Questa particolare categoria di documentari, a cui appartengono anche i film-concerto, ebbero la loro genesi nel 1967 con Don’t Look Back, il ritratto di Bob Dylan realizzato da Don Alan Pennebaker, pioniere del Direct Cinema che scelse di applicare lo stile della camera invisibile al mondo della musica rock. Si aprì così un nuovo filone di documentari ancora fortemente legati al cinema diretto per forme narrative e tecniche produttive. Gli autori di questi film seppero infatti sfruttare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie di ripresa: non offrirono solo un nuovo sguardo sulla vita delle star della musica ma, soprattutto durante gli anni Sessanta, attribuirono alla musica rock uno status di rivoluzionario strumento di analisi sociale, quasi un termometro dei cambiamenti in corso. Nel 1964, What’s Happening! The Beatles in New York! di Albert e David Maysles, registi che come Pennebaker provenivano dall’esperienza della Drew Associates, documentò sotto forma di diario la tournée americana dei Beatles e divenne celebre per essere stato il primo film del cinema diretto americano a omettere completamente la voce fuori campo.
Don’t Look Back si configura invece come un documentario a tutti gli effetti in cui risalta la figura umana di Bob Dylan durante un tour in Inghilterra, impietosamente mostrato nei backstage precedenti i suoi concerti, negli attimi in cui l’adrenalina dovuta alla tensione, non permettendo reazioni controllate nemmeno a una rock star, lo mette a nudo davanti all’obiettivo, sviscerando i suoi lati nascosti. Pennebaker, evitando interviste dirette a Dylan, si è limitato a raccogliere le sue dichiarazioni lasciandolo parlare nella tradizione del direct cinema. Il più grande successo di D. A. Pennbaker arrivò nel 1973 con Ziggy Stardust & The Spider from Mars, film dell’ultimo concerto di David Bowie nei panni dell’efebica figura di Ziggy Stardust. In precedenza Pennebaker raccontò con Monterey Pop dieci ore del festival di musica rock a Monterey, precedente a Woodstock; nonostante i nomi celebri presenti alla performance, Simon and Garfunkel, Jefferson Airplaine, Canned Heat e Mamas and Papas, la musica risultò un elemento secondario nell’economia del film. Pennebaker riuscì a creare un ritratto molto sentito e preciso della (contro)cultura della seconda metà degli anni Sessanta, quella ricerca di “amore e armonia” che portò poi agli scontri del 1968 e 1969. L’impegno sociale e il legame tra musica e cambiamento rimasero i temi preponderanti nei rockumentary anche nei primi anni Settanta, come in Woodstock: 3 Days of Peace and Music di Michael Wadleigh, Gimme Shelter, di Albert e David Maysles e Let It Be di Michael Lindsay-Hogg, tutti usciti nel 1970.
Nel 1978 L’ultimo valzer (The Last Waltz) di Martin Scorsese, in cui venne descritta una performance del super-gruppo The Band, rappresentò un’ideale elegia del rockumentary come genere cinematografico, esauritosi nei suoi intenti rivoluzionari, almeno secondo l’idea che ne aveva stimolato la nascita. Tra l’epico concerto e le amare memorie di un passato glorioso, la musica rappresentava nel documentario di Scorsese solo un lontano ricordo delle speranze che caratterizzarono gli anni Sessanta. Gli anni Ottanta, a esclusione di alcuni titoli quali No Nukes di Julian Schlossberg, Dan Goldberg e Anthony Potenza sulle cinque serate (19-23 settembre 1979) organizzate a New York dalla Musicians United for Safe Energy, costituita dopo l’incidente nucleare di Three Mile Island, registrarono un progressivo allontanamento del rockumentary rispetto le tematiche sociali e progressiste, trasformandolo in un nuovo fenomeno legato alla promozione audiovisiva dell’industria musicale e alla produzione di film commissionati dalle etichette discografiche. L’esplosione del video musicale fu anche merito dei canali televisivi tematici che come MTV cominciarono a trasmettere videoclip ventiquattrore su ventiquattro, codificando un genere fino ad allora sperimentale, omogeneizzandolo in una forma adatta alla messa in onda televisiva. Sempre nel 1980 Lech Kowalsky cercò di rappresentare con D.O.A. – A Right of Passage il neonato movimento Punk attraverso le riprese della tournée americana del gruppo dei Sex Pistols, delle interviste a Sid Viciuos e a Nancy Spugen, due dei volti più carismatici del punk internazionale e delle testimonianze di ragazzi aderenti al movimento. Il documentario musicale così rimase un terreno fertile di confronto e di sperimentazione capace di affascinare autori cinematografici di primo livello, che non esitarono ad esprimere il proprio amore per la musica attraverso i loro film. Nel 1984 Jonathan Demme realizzò Stop Making Sense, dal titolo di una delle canzoni che David Byrne e il complesso dei Talking Heads eseguirono in un concerto del dicembre 1983 al Pantages Theatre di Hollywood. Una regia complessa e accurata e l’esibizione di un puro showman come Byrne contribuirono a dar vita a uno dei migliori film-concerto che siano mai stati fatti, come definito dal critico Morando Morandini.
Micheal Apted, nel 1986, con Bring on the Night documentò la realizzazione del primo album solista di Sting, ex membro del gruppo dei Police, e alla luce delle convenzioni del cinema diretto scelse di non limitarsi alla ripresa dell’evento musicale o del backstage del gruppo, ma in nome della tecnica partecipativa, introdusse la cinepresa in sala parto dove la moglie della rock star stava dando alla luce un figlio, quasi a metaforizzare la produzione [img4]artistica come un parto. Nel 1998 Wim Wenders ottenne il premio Oscar per il documentario Buena Vista Social Club, sul tentativo effettuato dall’esperto musicale Ry Cooder di riunire la un gruppo di anziani musicisti cubani che negli anni Cinquanta si esibivano al Buena Vista Social Club dell’Avana, capitanati da Compay Segundo. Emir Kusturica documentò invece nel 2001 la sua esperienza musicale con la No Smoking Band con il video-diario Super8 Stories. Nuovamente nel 2003 un progetto sulla musica Blues ideato dallo stesso Wim Wenders ha coinvolto registi del calibro di Clint Eastwood, Martin Scorsese, Mike Figgis, Charles Burnett, Richard Pearce e Marc Levin per la produzione della miniserie documentaristica The Blues.
Infine oggi arriviamo a Shine a Light di Martin Scorsese, Joe Strummer – The Future is Unwritten di Julien Temple e Usa contro John Lennon di David Leaf, John Scheinfeld: tre declinazioni diverse del rockumentary che dimostrano come questo genere sia quanto mai vitale e attuale.
A cura di Carlo Prevosti
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