hideout

cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Fabio Bonifacci

Fabio Bonifacci. Non è un nome famoso, ma si tratta dello sceneggiatore più continuo attualmente in attività in Italia. Responsabile di commedie dal tocco leggero e riconoscibile, le sue storie non sono mai volgari e toccano spesso temi di vita quotidiana e sociale legati alla generazione degli eterni bambini di 30 e 40 anni. Tra i suoi film di maggior successo: E allora mambo! (1999), Notturno bus (2007) e Lezioni di cioccolato (2007) e ora al cinema con Amore, bugie e calcetto. Il suo è un tocco personale che ogni volta riesce nella magia di saper riproporre un cinema medio, che non si rivolge ne agli intellettuali ne alle grandi masse, ma sa piacere in punta di penna senza urlare, parlando un linguaggio vero e comprensibile.

Hai iniziato scrivendo testi per personaggi della TV come Enrico Bertolino. Quanto ha contato l’esperienza televisiva?

Veramente il mio percorso non è proprio questo. Io ho iniziato scrivendo in giovanissima età tre romanzi, solo che non venivano come volevo e li ho chiusi in un cassetto. Il problema era una certa incompetenza nella costruzione della trama. E così, umilmente, decisi di scrivere sceneggiature per imparare “come si fabbrica una storia”. Ma le sceneggiature non si vendevano, e intanto bisognava mangiare, quindi ho fatto di tutto: uffici stampa, giornalismo malpagato, pubblicità, ghostwriter per presidenti e sindaci di provincia. In questo percorso di “precariato dello scrittore giovane” sono finito anche a fare l’autore in tivù scrivendo testi per Alba Parietti. Lì mi sono fermato perché si guadagnava di più in meno tempo. Quindi la tivù per me è uno dei tanti lavori “in attesa di”: è stata anche una bella esperienza (ad esempio proprio nel lavoro fatto con Bertolino, persona squisita) però in tivù non imparavo nulla su quella che sentivo come la mia strada. La narrazione, al cinema come nei romanzi, va sul lungo passo, si misura in centinaia di pagine; la tivù che facevo io (quella dei comici) invece è frammento, lampo rapido. Uno sketch di 3 minuti già è lungo. Così, da vari anni ho smesso con la tivù.

Le tue commedie parlano spesso della generazione dei trentenni/quarantenni in crisi. Una scelta? Una necessità?

E’ un tema che torna senza che lo abbia mai scelto. Probabilmente il motivo sta nella vita reale: allungandosi il tempo della giovinezza, questa è oggi l’età in cui più spesso la gente compie le proprie scelte decisive. E quindi diventa il momento della vita più interessante da raccontare. Infatti il cinema, diceva un grande sceneggiatore americano, deve occuparsi delle persone nel momento in cui cambiano, in cui imparano qualcosa, in cui diventano ciò che sono. L’età in cui questo avviene si è spostata in avanti, e io istintivamente ho puntato lì il mio sguardo.


Nel caso di Amore, bugie e calcetto, sono usciti contemporaneamente film e libro. Come mai questa scelta?

E’ quel famoso percorso che inizia a completarsi. Dopo avere scritto molte sceneggiature, mi era venuta voglia di scrivere un romanzo. Su Amore, bugie e calcetto avevo accumulato tante pagine e riflessioni che non erano potute entrare nel film e così ho deciso di scriverlo su quella stessa storia. Ma non volevo fare la “novelization” del film, paradossalmente volevo scrivere il romanzo come se il film non esistesse: volevo esplorare la stessa storia con gli strumenti tipici del romanzo, e dire certe cose sui personaggi che al cinema non poteva dire. Non so ovviamente se ci sono riuscito, però ho provato molto piacere nella scrittura. E di solito il piacere è un buon segno.

La tua è una delle firme più continue, se non l’unica al momento in Italia, in grado di scrivere del “buon cinema medio”, ovvero commedie leggere di intrattenimento, non volgari, che nascono da spunti di vita comune o da temi caldi come precariato e immigrazione. Ti ritrovi in questa definizione? Cos’è il cinema medio?

Quando ho scritto la prima sceneggiatura, ormai quasi vent’anni fa, volevo fare cinema medio perché allora proprio non esisteva: c’erano quasi soltanto i film d’autore (veri o presunti) e commedie di livello. All’epoca fare del buon cinema medio mi pareva un sogno. Oggi lo sto facendo, quindi è vero che da giovani bisogna stare attenti a scegliere i sogni, perché poi si avverano. A parte gli scherzi, devo dire che però non mi sento affatto unico in questo tentativo. Anzi, mi pare che si assista a una rinascita del cinema medio italiano. Secondo me sono sempre di più i film nostrani in grado di comunicare col pubblico pur senza fermarsi al livello dell’intrattenimento più basso. Ci sono alcune case di produzione che hanno scelto di percorrere questa strada con coerenza e, per fortuna, una di queste è Cattleya, con cui lavoro in modo continuativo.

Alcuni tuoi film hanno avuto un buon riscontro sia di pubblico che di critica, altri sono stati maltrattati dai giornali. Che tipo di rapporto hai con il giudizio degli altri? Leggi le recensioni? Controlli i box office?

Quando esce un film vorrei partire per le Antille o il Nebraska: mi agita moltissimo sapere cosa ne penseranno gli altri. Ma credo che ignorare i giudizi altrui sia un’occasione perduta: anche le critiche più aspre, e magari pure quelle un po’ ingiuste, possono aiutarti a migliorare il tuo lavoro. Detto ciò, per adesso il destino dei miei film è curiosamente omogeneo. Cambiano registi, attori e produttori ma i risultati sono simili. Incasso buono ma senza mai fare il “botto”, recensioni tra il buonino e il tiepido della critica (che in Italia, si sa, non ama molto la commedia) e buoni giudizi medi del pubblico. Curiosamente, nei siti dove gli utenti danno il voto, tutti i miei film si collocano tra il sei e mezzo e il sette e mezzo. E la maggior parte ha la media del sette. Non riesco a prendere di più, ma neanche di meno. Evidentemente quello è il mio voto, al momento.

Negli ultimi anni si fa un gran parlare di product placemet. In America gli sceneggiatori vengono coinvolti attivamente nell’inserimento di prodotti all’interno delle storie. In Italia come funziona? E tu, come scrittore ti senti stimolato o offeso dall’idea di metterti alla prova in maniera creativa con questo tipo di pubblicità?

Da pochi anni c’è in Italia una legge che permette di fare product placement all’americana. Io sono favorevole perchè penso che il cinema abbia bisogno di marchi non solo dal punto di vista economico ma narrativo. I prodotti oggi esistono, sono ovunque, e ci aiutano a raccontare le persone. Per fare un classico esempio: la sponsorizzazione di “Pizza Hut” nel film Tartarughe Ninja. E’ un marchio molto noto in Usa, quindi la scena in cui le tartarughe si scoprono ghiotte di “Pizza Hut” è una svolta emotiva: il pubblico smette di considerarle esseri mostruosi e inizia a guardarle con simpatia perché “mangiano la stessa pizza che mangio io”. Quindi il marchio non nuoce al racconto ma lo aiuta. Oppure Minority Report: è un film zeppo di marchi, si vede Nokya, American express, c’è persino un cartello che invita il protagonista in fuga a fermarsi e bere una Guiness. Ma guardando il film non ti chiedi se siano product placement o no: perché quei marchi ti stanno raccontando una cosa vera e pure inquietante (come sarà la pubblicità del futuro) e te ne freghi se il proprietario del marchio ha pagato o meno. Questo è il tipo di Product Placement che mi piace: quello che nasce già in sceneggiatura e usa il prodotto per raccontare qualcosa di importante sul personaggio o sul mondo. Non mi piace invece quando diventa un “mini-spot” appiccicato al film. Secondo me, fra l’altro, in questi casi non giova nemmeno al prodotto, che rischia di essere percepito dal pubblico come fastidioso e invadente.

Gli scrittori per il cinema e la tv in America hanno bloccato l’industria dell’intrattenimento attraverso una forte rivendicazione sindacale. In Italia sarebbe possibile? Di che tipo di considerazione lavorativa godono gli scrittori nostrani?

Sinceramente non lo capisco bene. Quasi tutti i produttori dicono che la sceneggiatura è fondamentale però poi se vedono un film che apprezzano e vogliono farne uno simile, chi chiamano? In genere il regista o l’attore protagonista. Raramente pensano “forse devo chiamare chi l’ha scritto”. Questa è la mia impressione generale. Però personalmente al momento mi sento un privilegiato: come ho detto, lavoro tanto con Cattleya, e lì [img4]mi sento davvero molto considerato. A volte temo sia persino troppo.

In passato hai collaborato stabilmente con la tv. Nel presente stai lavorando molto nel cinema. Cosa succederà in futuro?

Spero che si completi il percorso iniziato tanti anni fa. Vorrei fare molto cinema, perché questo è ormai il mio lavoro e continua ad appassionarmi come quando lo consideravo un miraggio impossibile. Poi, certo, se capitasse di scrivere ogni tanto un romanzo che non merita di restare chiuso in un cassetto.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»