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Prevenire è meglio che curare

Prevenire è meglio che curare

Quando i produttori e gli sceneggiatori hollywoodiani sono alla frutta, non gli rimane altro che raschiare i fondi di magazzino alla ricerca di trovate trite e ritrite. In questo caso non hanno trovato di meglio che proporre un altro adattamento del grande scrittore di fantascienza Philip K. Dick, precisamente da un suo racconto breve intitolato The Golden Man. Stupisce che l’artefice di una tale goffa operazione sia lo sceneggiatore Gary Goldman, la cui mano è dietro a due dei più importanti film tratti da Dick, Atto di forza (Total Recall, Paul Verhoeven, 1990) e Minority Report (id., Steven Spielberg, 2002).

Come quest’ultimo film, Next si basa sul tema del precognitivo, dell’uomo dotato del potere di preveggenza utilizzabile dalle forze dell’ordine per prevedere, e prevenire, i crimini. Nel film di Spielberg, seppure in maniera addolcita rispetto all’opera di Dick, veniva raccontata una società futuristica opprimente, in grado di controllare le persone finanche nelle loro azioni non ancora compiute. In Next questa problematicità risulta del tutto assente, e il tema serve a toccare il nervo, ancora scoperto per gli americani, dell’11 settembre. Era un evento prevedibile? Si poteva evitarlo? Per questo motivo l’ambientazione temporale di Next viene spostata dal futuro, com’era nel racconto di Dick, al presente. Inevitabile, e impietoso, il confronto con un altro film dalla tematica simile, vale a dire il capolavoro La zona morta (The Dead Zone, David Cronenberg, 1983). Next riprende da questo e altri film il meccanismo dei tanti ipotetici flashforward che rappresentano i futuri possibili. E spesso gioca a confondere le carte, rivelando solo alla fine, con il classico colpo di scena, quale di questi si sia effettivamente realizzato. Ma il giochino si fa ripetitivo e, per stessa ammissione del regista, non fa che riproporre la meccanicità estenuante dei videogiochi, in cui, se si sbaglia una mossa, si può ricominciare da capo rifacendolo in modo giusto. Questo è in fondo il grande potere del protagonista del film, avere a disposizione la realtà come fosse un videogioco.

Spiace vedere in un tale contesto Julianne Moore, una delle più brave attrici uscite dall’Actor’s Studio. Riproposta, dopo Hannibal (id., Ridley Scott, 2001), nel ruolo di agente dell’FBI, qui si limita alle classiche due espressioni con cappello e senza. Un velo pietoso da stendere anche sulle inutili citazioni kubrickiane da Il dottor Stranamore (Dr. Strangelove or…, 1963) e Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1971). Ma al regista Lee Tamahori va riconosciuto un merito, le bellissime riprese di paesaggi naturali remoti e incontaminati, quali il Grand Canyon. Memorabile la scena con i bambini nativi americani, ambientata in una riserva indiana, forse ultimo residuo della bravura mostrata nel primo film di Tamahori, Once Were Warriors (id., 1993), incentrato sulla perdita dell’identità dei Maori.

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