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cultura dell'immagine e della parola

Lo skate visionario di Gus

Attenzione ai silenzi, occhio alla moviola, non perdetevi una faccia.
Gus Van Sant parla poco, osserva e, al massimo, dà di gomito. Così fa con Paranoid Park, romanzo dell’ancora sconosciuto (da noi) Blake Nelson. Ne prende la linearità, il buon gusto del celare il giusto – trattandosi di minorenni – e l’asciuttezza nel descrivere gli stati d’animo dei personaggi.

Il protagonista, un sedicenne skater di Portland (città natia dello scrittore e del regista), gli amici, la ragazza che chiede troppo e troppo presto. Poi lo stomaco affamato della città inghiotte tutto e tutti: la storia vi è completamente immersa, respira tramite gli scorci e si nutre per bocca del Paranoid Park, uno skate park abusivo. Un’apertura sul mondo dello skateboard per conoscere, tentare di spiegare e, soprattutto, diffonderne la cultura. Van Sant ci prova con le immagini delle acrobazie, ritratte sempre al ralenti, come un’elegante danza.
Il regista trae il meglio dagli sconosciuti volti degli attori, selezionati in internet, rendendo essenziali i dialoghi e minime le movenze. Con paradossale piacere, però, questo azzeramento dell’espressività, ottenuto con alcuni lunghi primi piani muti, amplifica l’intensità dei dialoghi e delle sequenze, sparigliando, con una sensibile percezione di sperimentalismo, l’equilibrio tra contributo del regista e raffigurazione degli attori.
Nel romanzo la narrazione in prima persona costruisce alla lunga la disamina di un sentimento, la colpa, in cui si sente la riflessione dell’autore piuttosto che l’affannarsi ansioso di un sedicenne.

Van Sant sceglie, come in Elephant, un impianto musicale importante, che qui ha sorprendenti riecheggi felliniani, capaci di moltiplicare il potere evocativo della recitazione e di esaltare ciò che, per tanti ragazzi, è veramente lo skateboard: una rassicurante e amica dimora (che qui naturalmente si chiama Paranoid Park) e un rifugio, che nel film assume, grazie all’isolamento musicale, tratti ipnotici e onirici.
In entrambi i lavori è presente una disarticolazione temporale stabile e continua, circolare, eppure è tra le meno sbandierate che io ricordi: non c’è compiacimento nel suo utilizzo né nella chiusura finale del cerchio. Al contrario, si torna indietro, con il ricorso al buon vecchio diario, in cui il protagonista, nella classica forma dialogica, appunta i suoi pensieri.
Sono innovativi alcuni tratti del lavoro di Van Sant, come i dialoghi, fotografati in inconsuete inquadrature univoche, focalizzate su un unico interlocutore, o la figura dei genitori, sempre dichiaratamente in secondo piano, quasi invisibili e, letteralmente, di schiena.
Il film si configura dunque come un’espansione del romanzo, in cui è accentuata la visionarietà temeraria e, insieme, terrena del genio di Van Sant.

Paranoid Park, romanzo di Blake Nelson, 2006
Paranoid Park, regia di Gus Van Sant, 2007

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