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cultura dell'immagine e della parola

Vivi il tuo tempo, ragazzo

Vivi il tuo tempo, ragazzo

Io non sono qui. Sono là. E là, e là…Sono da nessuna parte. Sono dove non c’è silenzio. Sono dove il silenzio è più fitto. Cos’è il silenzio? Il contrario della musica, forse, ma non della poesia. Alla poesia serve il silenzio, con le sue pause di senso, con le sue voragini di paura. Anche alla musica serve il silenzio: per farsi ascoltare. «Il silenzio è quello che terrorizza di più la gente». Inspired by the music and the many lives of Bob Dylan: ispirato, sicuramente. La musica, sicuramente. E molte domande con molte risposte diverse. Una vita sola in molti corpi; e un corpo solo prestato a molte vite: una vita così profondamente vissuta da poterne contenere e rappresentare molte altre. La vita di chi ha saputo essere presente alla nascita del proprio pensiero.

Giace lì: poeta, profeta, imbroglione, fuorilegge, star e rockstar. Giace lì, nel caos, la bellezza di questo film visionario su un artista che in quanto tale rifiuta di essere imprigionato in un ordine precostituito, sia pure quello di una biografia: e infatti la pellicola di Todd Haynes non è un biopic, e non è neanche un falso documentario. E’ un viaggio anarchico e vertiginoso fuori, dentro e intorno a Bob Dylan, nelle pieghe di una giovinezza vagabonda, nei panni di un dolore familiare, nell’inspiegabilità di una crisi o di un cambio di direzione. Una scrittura filmica sperimentale e creativa ma capace di dare emozioni, di restituire poesia, di toccare punti nevralgici della storia di un uomo: in un caos fluido un po’ a colori e un po’ no, con una parola autenticamente poetica, con immagini che s’imprimono nella memoria. Una tarantola nera che cammina sul bianco, un bambino nero sott’acqua in un fiume che «ha superato i silenzi e le notti», finte fotografie di un’epoca passata, testimonianze che hanno tutta la sincerità che può avere la finzione. Non importa chi sia Bob Dylan, non importa di chi siano le vite prese in prestito per raccontarlo, anche se è facile cadere nella trappola del “chi è chi”: in questo film non contano i riferimenti biografici reali, contano le intuizioni, i suoni, le luci e le ombre.

E’ letteralmente un’operazione di de-strutturazione, de-costruzione e distruzione per poter vedere, a brandelli, qualcosa che nell’avanzare cronologico di eventi vissuti riprodotti sullo schermo non sarebbe possibile vedere. «Dove te ne andrai? Nel primo posto che non conosce il mio nome». E’ esattamente lì che Haynes porta il suo Bob Dylan: in un luogo in cui nessun giornalista o ammiratore tenti di incatenarne l’immagine, e lo fa prendendo in prestito le sue parole, le sue canzoni, i miti che ha nutrito e da cui si è fatto nutrire, da Rimbaud a Billy The Kid, moltiplicando all’infinito, per liberarla, l’immagine di un artista simbolo del Novecento. Cate Blanchett/Jude è immensa: è Bob Dylan, col sorriso della Gioconda. Se non l’avete mai visto così, non l’avete mai visto.

Curiosità
Il film ha vinto il Premio speciale della giuria e la Coppa Volpi per la miglior attrice femminile a Cate Blanchett alla 64esima Mostra del Cinema di Venezia.

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