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Tra avanzi e aragoste

Tra avanzi e aragoste

Eravamo 6 amici in tv di Sara Sagrati *******

Alzi la mano chi restava a casa il venerdì sera a guardare Avanzi. Ecco, questo è il film per voi. Tutti gli altri, prego, si accomodino. Ecco qual’è il difetto dell’ultimo film di Sabina Guzzanti: non è un film per tutti.
Non si tratta nemmeno di un film solo per i vecchi fan dell’irripetibile trasmissione comica che su RaiTre spopolava negli anni pre e durante tangentopoli. Le ragioni dell’aragosta è invece una riflessione allo specchio sul ruolo del comico, allora e oggi, sul cambiamento della politica, sugli stravolgimenti dei ruoli istituzionali e, soprattutto, sulla perdita di significato del concetto di comunità, dello stare insieme.
Difficile però cogliere questi temi se non si parte dalle stesse basi comuni di Sabina e dei suoi amici ritrovati. Se non si sono vissuti quegli anni, se non si è amata quella trasmissione è praticamente impossibile partecipare alla carica emotiva del film. Un problema già emerso con Viva Zapatero! (id., 2006), film nato da comprensibili esigenze, ma non del tutto riuscito proprio per la mancanza di un’approfondimento distaccato sulle ragioni di fondo che avevano spinto Sabina Guzzanti a realizzarlo. Come a dire: “non sto qui a spiegarvi il perchè sono arrabbiata. Il perchè è ovvio e se non lo capite allora siete stati lobotomizzati dal sistema e quindi è inutile”.

Le ragioni dell’aragosta è decisamente un passo avanti, ma qui viene dato per scontato che Avanzi era un faro nella notte, un momento di gioia e di sollievo. In pratica se avete nostalgia di Pier Francesco Loche allora tutto fila per il verso giusto. Il percorso di nostalgia per i “bei tempi andati” legati da una parte dall’esperienza reale del pescatore ex sindacalista Gianni Usai e dall’altra per i buffoni alla corte di RaiTre funziona, appunto, ma solo se quella nostalgia la si prova davvero. Solo se rivedere il clown Cipollone o lo sketch di Moana che fa educazione sessuale a Loche è emozionante. Poco importa scoprire alla fine che è tutto finto. Anzi, l’inesistenza dello spettacolo a favore delle arogoste di Su Pallusu rende l’operazione anche più coerente. Le inquadrature e le situazioni presentate infatti fanno intuire che si tratti di una messa in scena e se non si fosse trattato di un falso documentario, il film avrebbe lasciato nello spettatore un’indecifrabile sensazione di falsità.
Paradossale come la falsità renda invece tutto più reale. Merito anche degli attori coinvolti che hanno lavorato su situazioni date (Sabina Guzzanti ha scritto una sceneggiatura, ma senza condividerla con il cast), improvvisando i propri dialoghi mettendo in gioco la propria esperienza reale. Un plauso soprattutto a Cinzia Leone che ha scelto personalmente, contro la volontà di Sabina, di raccontare le sue paure di attrice e di donna dopo l’ictus che la colpì oltre dieci anni fa, nel momento forse più toccante del film, ma anche il più morboso. Quella scena è attaccabile, ma solo se non si prova affetto per Cinzia Leone: chi l’ha amata nella sua imitazione della Dellera o della Mussolini, tanto da sentirla come una sorta di amica di famiglia, non potrà che emozionarsi. Ecco dunque che il difetto del film diventa anche il suo valore aggiunto, ma solo, appunto, per quelli per cui Avanzi rappresenta una “fetta di vita passata”.

Sabina, all’inizio del film è di fronte allo specchio, si chiede coma ha fatto a farsi convincere a fare uno spettacolo di sensibilizzazione per i pescatori di aragoste di Su Pallusu: «Cosa c’entra un comico con la politica? Che mi frega delle arogoste? Quand’è che i comici hanno iniziato a fare politica e viceversa?». Alla fine del film l’inquadratura si allarga e ci accorgiamo che non è sola di fronte a quello specchio. Pier Francesco Loche è con lei ed è lui che l’aiuta a ritrovare un senso, una motivazione nell’andare avanti anche perchè in fondo il brodo è quello e a volte è meglio mangiarlo. Nel mezzo c’è la voglia di fare qualcosa, di impegnarsi, di rimettere insieme i vecchi amici. Sabina descrive il suo percorso personale nel volersi impegnare per i pescatori, anche se in fondo quello che le interessa davvero è conoscere meglio Gianni Usai e la sua esperienza nel sindacato della Fiat alla fine degli anni Settanta. Un uomo che si era impegnato in prima persona quando la politica si faceva in fabbrica, quando si rischiava davvero il posto. Un uomo che c’era anche quando il sindacato tradì i lavoratori, che visse il momento in cui si perse la voglia di lavorare e combattere insieme, il momento in cui iniziò la decadenza. Almeno secondo Sabina.

Ruffianerie quotidiane di Matteo Mazza ****

Le intenzioni di Sabina Guzzanti (farsi sentire ogni tanto, guadagnare raccontando i cambiamenti di un’Italia che nel tempo si è arresa a scapito dell’unione, che fa la forza tra i comici, ora sempre più schierati, ora sempre meno scomodi) sono la parte meno ruffiana di tutto il discorso della brava, ma non come il fratello, attrice, regista, sceneggiatrice, cabarettista (?). Le ragioni dell’aragosta non mette in discussione l’intelligenza del progetto, che si muove seriamente su coordinate ben precise (come la denuncia dell’ipocrisia o le evidenti difficoltà di chi sta ai margini) ma sembra adagiarsi su quel tipo di televisione spazzatura che siamo ormai abituati a trovare, ingoiare, fagocitare. Magari anche vomitare.
Il classico esempio di spettacolo al servizio del sentimento, della lacrima facile, delle buone intenzioni. Ovvero la tivvù ruffiana travestita da malinconia, quella delle soap-opera, di certi telegiornali e soprattutto dei talk-show, dei salottini, dei troni e dei confessionali, delle buste e dei pacchi. Non certo la genuinità di programmi come Avanzi, che nonostante la libertà e simpatia ha forse rappresentato l’inizio di una nuova era televisiva (ai posteri le sentenze: impegnata o disimpegnata?).

Da questi motivi scatta il Guzzanti pensiero, fatto di ripicche e trucchetti abili, dove il messaggio passa chiaro e deciso, dove il contorno è il tutto e il nucleo del discorso è delimitato allo slogan. Se nel precedente Viva Zapatero quasi ci si affezionava all’energia investita nel progetto, alla voglia di trovare la verità (pur sapendo di non trovarla), fornendo anche elementi di discussione a questioni scomode individuando le giuste contraddizioni, qui si vuole solo provocare l’attenzione dello spettatore ricordando che Berlusconi dice cazzate, il Corriere della Sera ha solo editorialisti arrivisti, il catechismo di Ratzinger accetta la guerra.
Posto che Ratzinger non ha scritto il catechismo e che avvicinarsi ad una tematica così complessa (la questione guerra/Chiesa esiste da secoli ed è ancora oggi argomento di discussione) in un modo così grossolano non solo è pericoloso, ma è anche intellettualmente scorretto, il resto delle accuse volano nell’aria del film e vengono tirate giù solo per scuotere l’attenzione o svegliare il destinatario.

Loche, che alla fine ci ricorda l’importanza del brodo, è tenero, certo, ma forse serve solo a ricordarci che oggi è fondamentale essere ruffiani. A che scopo mostrare Cinzia Leone mentre piange, in uno dei momenti più carichi dal punto di vista emotivo? E soprattutto perché montare le immagini del ricovero e della riabilitazione dell’attrice? Sono scene che non rimangono inosservate, ma anzi, cosa

<br /><i></i><br />‘><br /><i></i><br /></TD></TR></TABLE> , sono immagini coerenti rispetto al progetto della Guzzanti. L’Italia è cambiata. Grazie, ma lo sapevamo già. </p>
<p>Apro una postilla a proposito di attualità e informazione. Aver coinvolto nel discorso la categoria dei comici appare, in questo momento, un fatto curioso. Beppe Grillo non ha bisogno di partecipare ai comizi politici (come invece qualcuno fa, quasi con spirito di sacrificio), eppure in molti sanno cosa pensa e cosa propone per cambiare le cose. Non solo attraverso gli spettacoli (certamente molto redditizi per lui) ma anche e soprattutto attraverso internet. Un termine che (se non ricordo male) nel film della Guzzanti non esiste assolutamente. Il mondo è cambiato, non solo l’Italia. Chiudo la postilla.</p>
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					<em>A cura di Sara Sagrati</em><br />
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