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Il videoclip in un film

Il videoclip in un film

Gli ingredienti sono: un ballerino di strada con un passato difficile, una competizione da vincere e un amore che nasce, nonostante le differenze di status e di stili di vita. Se si ambienta il tutto in un campus americano in cui rivaleggiano a colpi di danza esclusive confraternite, ecco servito l’ennesimo film made in Usa che (ab)usa dell’ormai consumato connubio tra danza e disagio giovanile e della consueta location universitaria. Non importa che si tratti di hip hop (Save the last dance – id., Thomas Carter, 2001 – e Step up – id., Anne Fletcher, 2006), danza classica (Billy Elliott – id., Stephen Daldry, 2000) o di ballo da sala (Ti va di ballare?Take the Lead, Liz Friedlander, 2006), l’importante è che i giovani irrequieti incanalino le proprie intemperanze in una qualsiasi forma di ballo e infine si redimano. La scelta di aderire all’ordine sociale prestabilito e la riscoperta dei buoni sentimenti non mancano di premiare i protagonisti e infatti il finale di questi film di solito prevede l’ingresso in una rinomata scuola d’arte o la vittoria in una gara.

In Stepping viene rispettato il più classico di questi copioni, seguendo il percorso dell’adolescente DJ che dopo la tragica morte del fratello si avvicina allo stepping, un singolare tipo di ballo particolarmente diffuso tra i ragazzi afroamericani e fondato sul suono ritmico prodotto dal movimento combinato di mani e piedi. Il diversivo è creato dall’aggiunta del tema della fratellanza, elemento fondante delle confraternite, in cui l’appartenenza è la premessa di una luminosa carriera professionale post laurea. Ma nonostante due aspetti pregevoli, come le sequenze spettacolari di danza riprese con maestria tecnica e il merito di aver portato alla luce un genere di ballo poco conosciuto dal grande pubblico europeo, il film non riesce proprio a decollare. Colpa senz’altro della trama scelta per legare i numerosi pezzi di danza, talmente esile da scadere fin troppo spesso nella banalità più assoluta e che alla lunga risulta davvero insostenibile. I nodi dell’intreccio vengono risolti in modo troppo sbrigativo e superficiale e i rari colpi di scena sono a dir poco inverosimili e campati per aria (ad esempio la storia dello zio di DJ che ha soffiato la ragazza al rettore e il ridicolo ricatto morale di quest’ultimo). Su tutto prevale la noia e la forte sensazione di già visto (non una ma almeno un milione di volte). Ma qualcosa ci dice che nonostante tutte queste pecche la pellicola non mancherà di far proseliti tra gli spettatori con il pallino per la street dance e il freestyle.

Gli interpreti, tutti di colore, sono degli straordinari ballerini e nelle incredibili sequenze di “spettacolo nello spettacolo” cercano, purtroppo non riuscendoci, di risollevare le sorti dell’intero film. Visto lo scarso spessore psicologico dei personaggi, dovuto alla trama piatta e prevedibile è difficile valutarne la capacità interpretativa. Il passato del regista Sylvain White nella produzione di videoclip musicali e spot pubblicitari (prodotti in cui il ritmo e la colonna sonora sono tutto) si fa particolarmente sentire nelle sequenze acrobatiche di ballo in cui il montaggio frenetico e scattante delle immagini ricorda molto quello usato in queste tipologie di prodotti.

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