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Nuota che ti passa

Nuota che ti passa

Ricetta per la creazione di un film d’animazione: un cucciolo che rimane orfano, un viaggio per ricongiungersi a un parente lontano, l’incontro con l’amore, un nemico prepotente più grande e più forte, un mentore che insegni le vie della forza, una comunità che rifugge il nuovo arrivato per poi abbracciarlo e aiutarlo, un oggetto magico, personaggi di contorno sboccati e scoreggioni. Prendere il tutto, ambientarlo nella location trendy del momento, amalgamare con qualche battuta Mtv style, aggiungere un doppiaggio con inflessioni dialettali e The reef è servito. Insomma, The reef è un film nato stanco, che va a ripescare gli stereotipi del genere senza donare loro una nuova vita. Tutto già visto e sentito.

La volontà degli sceneggiatori di inserire ogni ingrediente della ricetta, poi, rende il piatto piuttosto pesante. Rinunciare qua e la a qualche personaggio o a qualche gag avrebbe giovato molto al ritmo e alla narrazione. Non si sarebbe trattato comunque di un capolavoro, ma almeno avrebbe permesso di offrire un onesto divertimento per bambini. Bambini che presumibilmente non potranno che annoiarsi di fronte all’ennesimo pesciolino coraggioso che come Nemo è arancione e rimane solo, e come l’Oscar di Shark tale (id., Bibo Bergeron, Vicky Jenson, Rob Letterman, 2004) ha a che fare con gli squali. La sensazione di deja vu aumenta esponenzialmente di fronte alla pesciolina sexy e rosa, alla tartaruga saggia, all’amico azzurro tonto ma sincero. Alla stanchezza si aggiunge poi il fastidio, ogni volta che la zia svampita apre bocca o che entrano in scena i tre pesci anziani dalla parlata “picciotta” e dal peto facile. Il tentativo di incorniciare la narrazione con un prologo e un epilogo in rima per immergerci (è il caso di dirlo) in una dimensione favolistica, poi, fallisce miseramente rendendo ancora più grottesca e boriosa una storia totalmente priva di interesse.
Se già Shark tale risentiva di una certa prevedibilità, almeno poteva contare su un’animazione curata e sulla caratterizzazione dei volti famosi che prestavano la propria voce ai personaggi. The reef invece propone anche un’animazione deludente, per cui ogni pesce sembra avere dei bottoni al posto degli occhi. Per non parlare dei fondali che, nonostante l’uso del 3D, a volte sembrano essere sostituiti da disegni a pastello, in una commistione di tecniche che rende ancora meno credibile l’ambientazione. L’uso di un’animazione classica forse avrebbe giovato di più alla riuscita dell’operazione, creando una sorta di artigianalità sicuramente più apprezzabile.
Lo sceneggiatore Scott Clevenger ha dichiarato che l’intenzione «era quella di avere un western in fondo al mare, con una spruzzata di misticismo buttata nel mezzo». E se il misticismo è incarnato nella zia Wanna che si sente una medium e legge il futuro in una perla, la dimensione da frontiera dovrebbe essere quella dello straniero che arriva in città , si scontra col cattivo e si prepara al duello finale. Un’intenzione che è rimasta tale, in quanto il film, invece che rimandare alla frontiera vera e propria, ricorda più le sue rivisitazioni anni Ottanta. L’allenamento del giovane tay sembra la caratterizzazione a cartoni animati del giovane Ralph Macchio e di Pat “Myagi” Morita di Karate Kid (id., John G. Avildsen, 1984), ma senza una cofano a cui mettere e togliere la cera.

La distributrice Mediafilm ha cercato di correre ai ripari, trovando un elemento di interesse alla tardiva uscita nei cinema italiani di questo cartone animato che era nei cinema coreani già un anno fa. La colonna sonora si arricchisce infatti dalla performance del giovane gruppo milanese Mr. White Rabbit. che presta la sua canzone Wonderful come tema principale delle pellicola. I titoli di coda poi sono “impreziositi” dal video musicale della band girato vicino a un posticcio fiume tropicale del parco acquatico CanevaWorld. Un bel colpo per questi giovanissimi musicisti. Parenti e amici accorerranno in massa. Una ricetta in cui gli ingredienti sono corretti, ma vengono amalgamati senza cura e senza amore, portando in tavola un piatto poco gustoso che, una volta assaggiato, lascia solo una gran voglia di sushi.

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