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Tempus vincit omnia

Tempus vincit omnia

È il rumore di una lancetta di orologio ad aprire l’inizio. E’ il Tempo, preannunciato dal titolo, che presiede le vite degli uomini, striscia sui corpi e s’incolla ai volti per scolpirli lentamente, e deformarli. Il tempo agostiniano, dimensione dell’anima, sembra nella contemporaneità diventare dimensione del corpo, apparente motore primo delle vicende esistenziali. Che cos’è un volto in amore? Qualcosa che ad certo punto sembra perdere la sua capacità di significare (emozionare?), assimilato dai giorni uguali e da uguali luoghi, stemperato nel volto dell’altro che ci sta di fronte e che, senza saperlo, vi si rispecchia.

A questo punto si trovano gli innamorati di Ki-Duk, in un caffè o in una camera da letto. Il Tempo li sopravanza e instaura un dubbio. Un legittimo dubbio. Quand’è che l’amore si differenzia dalla passione? E quale può essere il rimedio? Seh-hee si dilegua e cambia volto, e condanna se stessa e l’amato al ruolo di amanti perduti, incapaci di riconoscersi nell’individualità come nella coppia. E’ solo il primo gradino della discesa verso l’in-coscienza: Ji-woo è un Orfeo che perde la sua Euridice perché si volta e non la riconosce. La segue nell’errore, e le parti s’invertono. Si cercano senza sosta, i due amanti, folli perché “normali”, e quindi sottoposti agli inganni del Tempo: se un volto non è più garanzia di verità, dove si nasconde l’anima? Forse in un parco di sculture, dove le dita di una mano sono una scala verso l’infinito e i corpi restano sospesi in impossibili abbracci.

La fine non può che essere lacerante, ma come un piccolo strappo nell’universo, non avvertito dai più, a conferma che solo il dolore può restituire un’identità, il dolore della conoscenza. I dialoghi corrono, e i personaggi affollano la tredicesima pellicola del regista coreano dentro una struttura lineare come il tempo che scorre, disseminata di riferimenti autoreferenziali (il poster di Wild Animals sul muro; il protagonista che lavora al montaggio di Ferro 3). Imperfetto come le relazioni umane, forse con qualche concessione di troppo al sentimentale, è un film delicato e disperante, richiama alla mente un corpo disponibile ad accoglierne altri, fecondo dunque, e sempre coraggioso, capace di inquadrare un camminare surreale e lasciarlo lì, a farsi guardare – e interpretare – da chi lo vede. Tempus vincit omnia: a suggerire che, forse, l’unico modo di non perdere è accettare di essere carne del Tempo, accettare che modifichi il nostro corpo, il nostro volto, le nostre relazioni.

Curiosità
Uno dei luoghi centrali del film è il parco delle sculture di Baemigumi (così chiamato perché ricorda la prua di una nave), situato sull’ isola di Mo, 40 chilometri ad Ovest di Seul, dove sono collocate le opere dell’artista coreano Lee Il-ho.

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