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La forza della ripetizione

La forza della ripetizione

La forza della ripetizione è quella che permette di mostrare la differenza tra un segno e la sua ripresentazione, l’altro rispetto all’idealità. Il remake è un vincolo, fornisce delle griglie d’azione, ed è la capacità di aggirarle, che può rendere un’opera potente nella sua dimensione altra rispetto all’originale. Stiamo forse (e volutamente) esagerando, Le colline hanno gli occhi non è un capolavoro, e di certo non ha alcuna intenzione di esserlo. Ma la pratica del remake, se sfruttata in tutte le sue potenzialità, mostra alcune caratteristiche molto contemporanee su cui varrebbe la pena soffermarsi.
Aja è uno che pare avvezzo al genere. Alta tensione (Haute tension, 2003) era un remake in senso lato, replicava le situazioni horror più stereotipate portandole all’eccesso, in un vero e proprio accumulo di tensione, a iniziare dal titolo perfetto e programmatico. Finiva poi per ribaltare le carte in tavola in un differimento a livello narrativo un po’ irritante, ma le premesse per una particolare estetica viscerale c’erano già tutte.

Le colline hanno gli occhi replica l’originale di Wes Craven (The hills have eyes, 1977), oscurando qualsiasi tentativo di ricerca psicologica dei personaggi o di caratterizzazione, che risulta volutamente bozzettistica. Persino la tensione iniziale, quando ancora la famigliola non sa cosa la spetta, viene risolta sbrigativamente. E’ dopo l’assalto alla roulotte per mano di una sgangherata famiglia di mutanti, che scatta tutta la potenza distruttiva del film. La tensione sale, ma è rabbia: chi odiava le armi se ne procura il più possibile, e le vittime uguagliano i carnefici in crudeltà.
Gli amanti dello splatter ringrazieranno Aja per una quantità di sangue talmente esagerata, da essere implicitamente ironica, a echeggiare le case di Sam Raimi. D’altra parte, la città dei mutanti popolata di manichini (una delle poche note di sceneggiatura diverse dall’originale), non è che una presa in giro della società stessa, una sua replica grottesca e priva di sostanza. I mutanti imitano il mondo reale e questo imita i mutanti, riportando le persone alle più ataviche passioni (al medioevo post atomico prospettato nel Dottor StranamoreDr. Strange love or: How I learned to stop worrying and love the bomb, Stanley Kubrick, 1964 -, forse, film più volte chiaramente citato).

Le colline hanno gli occhi trascina in una spirale di violenza dove la furia prevale sulla paura, dove dei civilissimi americani, tutt’altro che invincibili, si trasformano in bestie. In tutto questo non c’è spazio per i sentimentalismi. Doug rivuole la figlia, e se una mutante redenta e intenerita si sacrifica per fargliela riavere, questo non può che accadere nella sua più assoluta indifferenza.
E non era un dialogo tra democratici e repubblicani quello che intrattenevano all’inizio il padre poliziotto e il pacifista Doug, marito della figlia. La trasformazione di Doug sarà una chiamata alle armi tutt’altro che reazionaria. Si tratta piuttosto dello sfogo dello spettatore, abituato all’impotenza di personaggi che nell’horror non riescono a cavarsi dalle situazioni più banali. Finalmente, possiamo realmente aderire al protagonista, senza ritenerlo un inetto, ci muoviamo con lui in una sorta di costante semisoggettiva. Aja usa al meglio la forza percettiva del cinema, senza alcuna paura di restare entro i limiti della farsa o degli splatter delle buone maniere hollywoodiane. Le immagini ci trascinano nella rabbia folle e disperata, mostrando un lato epico che Craven tralasciava per l’ironia, ma che nel contesto è più che giustificato. E’ proprio in quella differenza rispetto all’originale che Le colline hanno gli occhi mette in mostra una potenzialità squisitamente cinematografica tutta a livello sensibile della pellicola.
A soli 28 anni, Aja ci ha portato dentro la furia, la tensione e la vendetta. Non possiamo che attendere la prossima corsa folle dentro le passioni più forti, con gli occhi sbarrati davanti allo schermo.

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