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Io sono filisteo. E io no

Io sono filisteo. E io no

E Roger Waters, sul finire degli anni settanta scrisse Hey you. Uno dei pezzi melodicamente più intensi della discografia dei Pink Floyd. Uno dei più amari e disperati. Un grido di rabbia, un’esplosione di angoscia. Parole sofferte che inneggiavano all’unione fra gli uomini.
Qualche anno dopo un certo Walt Berkman, durante un’esibizione scolastica, provava a spacciare quella canzone per sua. Walt strimpellava la sua chitarra e gridava anche lui al mondo. Chiedeva aiuto. Con le sue maniere da ragazzo gentile e impacciato. Un po’ furbescamente, quasi senza saperlo, parlava con il mondo che gli stava fuori, che lo guardava, che lo aspettava. Poche stanze più in là, non molto lontano dall’esibizione, c’era Frank, suo fratello più piccolo, con in mano la sua rabbia sotto forma di sperma. Bernard e Joan erano seduti in platea, in mezzo agli altri genitori. Divorziati, come tanti altri.

Noah Baumbach, al suo quarto lungometraggio, realizza un film che sembra cartavetrata. I suoi ricordi targati 1986 sono ruvidi, pungenti e graffiano la pelle. La sua Brooklyn è il palcoscenico della deframmentazione familiare. Un sottile strato di surrealismo e umorismo nero bilancia una struttura pregna d’angoscia e amarezza, concentrata sui pensieri, i gesti, le reazioni di Walt e Frank in seguito al divorzio dei loro genitori. Baumbach mescola ricordi e atmosfere e ripercorre quegli anni fermandosi sui dettagli, sugli sguardi, sulle relazioni dei protagonisti. Guarda al disagio e immerge i suoi protagonisti in un sistema che ha perso totalmente il senso dell’equilibrio. Senza più un orientamento i ragazzi sono in balia di qualsiasi cosa: la birra, le donne, la cultura, lo sport, il sesso. Nessuna guida, niente più bussole.

L’immagine creata è quella simbolo del cinema indipendente degli anni ottanta. L’effetto è quello dello smarrimento. Della perdizione. Luce opaca, pellicola sgranata. Soggetti sempre in movimento e ripresa a mano che sottolinea sia l’instabilità affettiva, relazionale e familiare, sia il valore di ogni gesto, sguardo e azione.
Questo è un film intimo, sincero, ricco di spunti, curioso e profondamente vero. Baumbach è abile e intelligente quando insegue, senza nasconderlo, lo stile di Wes Anderson (che qui è produttore), e offre la possibilità allo spettatore di emozionarsi con una storia che non ha nulla da spartire con il patetico. Qui ci si addentra in una famiglia che si è persa per strada come tante altre. Si descrive il disagio e la sofferenza. Agenti corrosivi dell’animo umano.

Hey you,
Don’t tell me there’s no hope at all.
Together we stand, divided we fall.

Curiosità
Il film si è aggiudicato i premi per la miglior regia e la miglior sceneggiatura al Sundance Film Festival 2005 e per la miglior sceneggiatura al New York Festival Critics Association 2005.

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