La terza mutazione
Il marchio mutante di Francesca Bertazzoni *******
Rappresentare l’apparenza
Dalla prima inquadratura si parla di apparenze: una battaglia che sembra reale, un’inquadratura ribaltata che sembra diritta, a osservare McCoy / la Bestia seduto alla sua scrivania. Si racchiude nella labile differenza tra ciò che è e ciò che sembra il nocciolo duro dell’intera trilogia e, soprattutto, di questo ultimo film: X-Men: Conflitto finale si occupa di cure per un male (ma la cura è un giovane mutante che ha un preciso potere), di marchi sulla pelle (Callisto che domanda a Magneto il motivo per cui non mostra la sua diversità con un tatuaggio), di schizofrenia (non è facile decidere chi realmente sia Jean Gray). Parla ancora di mutazioni, in tutte le sue sfaccettature, da quella genetica a quella morale, dal cambiamento di indole a quello visibile sulla pelle e, paradossalmente, i cambiamenti più significativi sono quelli meno appariscenti, che riportano alcuni dei protagonisti alla normalità di una vita da “mutante guarito”. Mystica può essere il simbolo sacrificale di questa ambiguità: persa la sua capacità di impossessarsi dell’apparenza esteriore di chiunque, rimane nuda e anonima, sebbene nelle fattezze perfette di Rebecca Romijn: ma il suo fascino è del tutto perduto.
Definizioni e ridefinizioni
Quel “last stand” del titolo, più che riferirsi a una battaglia conclusiva, rappresenta lo stadio che i personaggi sono obbligati a raggiungere per completare il loro percorso. L’ambiguità di Jean Grey si trasforma nella definizione schizoide di un personaggio come Fenice, Tempesta completa la sua istruzione, passando definitivamente da allieva a maestra, Rouge decide di definirsi e annullarsi contemporaneamente, persino Angelo, un personaggio con una parte decisamente secondaria, prende una decisione sulla sua identità, messo di fronte alla possibilità di morire / diventare normale: e la sua identità si mostra orgogliosamente con un paio di ali piumate, fiere e magiche. Per Wolverine questo è il grande dilemma: la sua natura, la sua origine, lo porta a essere lontano sia dagli uomini che dai mutanti, un essere ibrido in cui natura e scienza si combattono. Ma la sua solitudine si riconcilia con la sua natura e Wolverine, che nel primo episodio ironizzava sui costumi da X-Men, faticando a indossare il suo, questa volta è il primo a mettere la divisa per una battaglia che necessita, per esplodere, di una chiara percezione dei ruoli. Illuminante lo scontro sui due fronti, che tuttavia sono ambigui, dimostrando per l’ennesima volta la distanza tra umani e mutanti: Magneto e i suoi, imponenti e forti, minacciosi e dai poteri pericolosissimi; gli X-Men, uomini dai superpoteri, che arrivano dal cielo come angeli, ma a tratti aggressivi come demoni; e gli umani, lontani dai nemici come dagli amici, rappresentati come soldatini di plastica, dalle armi-giocattolo, incapaci di una dignità e di una credibilità che è propria solo dei loro fratelli mutanti.
La grande capacità dei supereroi, la loro illimitata capacità di cambiare, si fa così estrema che inizia a giocare con la morte: l’estremo passo sarà, forse, quello divino (e già Jean lo anticipa, tornando dalla morte come una “dea”): il passaggio a una vita ultraterrena. Ma sulla terra.
Nevermind the mutants! di Gianmarco Zanrè ****
Effetti o storia?
Immaginate l’impatto, per un appassionato nonché sceneggiatore di fumetti, di un colpo al cuore all’uscita dalla sala al termine di una pellicola che chiude una trilogia attesa da tempo e preceduta, pur con i loro difetti, da due episodi gradevoli: la sensazione, accompagnata dal sospetto che un regista più abile avrebbe certamente reso le gesta degli Uomini-X qualcosa di diverso da una corsa allo scontro spettacolare – leggasi Christopher Nolan, per citare soltanto l’ultimo a essersi cimentato con il genere dei supereroi -, è quella del flop più clamoroso.
La fase di scrittura di quest’ultimo capitolo delle avventure dei mutanti più noti di casa Marvel pare infatti essere stata completamente tesa alla creazione di una sorta di carrellata di pittoreschi e appena abbozzati personaggi in grado di dare occasione ai tecnici degli effetti speciali di mostrare le proprie doti: caratterizzazioni scarne e poco incisive – se si esclude il consueto confronto fra le visioni di Xavier e Magneto -, mancanza quasi assoluta di coesione narrativa in termini di tempi e ritmo, rincorsa quasi cieca di imponenti scene di battaglia alternate a siparietti da pessimo e moralista film a stelle e strisce mascherati da scene madri.
Un brutto colpo per tutti coloro che, da questo capitolo, si aspettavano una conclusione degna dei temi importanti che un fumetto come X-Men ha sempre portato alla sua audience, specialmente se si considera il parallelo mutante / diverso applicabile senza alcuna difficoltà alla vita reale e alla progressiva globalizzazione delle città del mondo.
La sensazione di chi scrive è che si sia prediletto l’aspetto più adolescenziale ed esplosivo della trama tenendo poco conto di chi, pur alla ricerca di svago, affronta una pellicola d’intrattenimento come questa sperando di non sentirsi insultato, intellettivamente parlando.
Parafrasando un famoso detto, tutto fumo, niente arrosto.
E ripensando agli X-Men, si potrebbe quasi azzardare che il fuoco della Fenice ha bruciato tutto – o quasi – quel che di buono si era fatto, o si poteva costruire.
Adattamento o revisionismo?
Premesso che, da appassionato del fumetto che ha ispirato la trilogia cinematografica, non potrei non pensare a quanto trent’anni di storia cartacea necessitino di un complesso e profondo adattamento prima di giungere sul grande schermo, un altro grande limite di quest’ultimo episodio della saga appare proprio l’irrisorio rispetto per molte delle situazioni e dei personaggi che hanno fatto la storia della testata Marvel: se, certamente, risultano intriganti l’inserimento dell’elemento di controllo di Xavier nella creazione di Fenice e l’idea di una cura usata come arma contro gli stessi portatori del gene x, il resto dei personaggi, complice la disgraziata sceneggiatura, risultano stravolti e poco credibili, in ogni caso brutte copie delle loro controparti a fumetti. Il selvaggio e irrequieto Wolverine diviene così impavido leader a scapito dell’eliminato e dimenticato Ciclope, Bestia assume i connotati quasi ridicoli di un Bud Spencer in pelo blu, le premesse poste alla base della creazione dell’esercito di Magneto e della sua Confraternita appaiono prive di fondamento, Nightcrawler, una delle novità migliori del capitolo precedente, eliminato dal cast, Rogue ridotta a una comparsa. L’elenco sarebbe ben più consistente, così come più profonda sarebbe l’analisi di comparazione fra la versione a fumetti e quella cinematografica, ma evitando lungaggini a esclusivo appannaggio dei Marvel-Fan, o “veri credenti”, come soprannominati dal creatore degli X-Men Stan Lee, presente come di consueto in un piccolo cammeo, possiamo senz’altro dire che, nonostante tutti i vantaggi del cinema, questa volta la vittoria va, tra Xavier e Magneto, al fumetto, media artigianale e nel nostro paese in un certo senso ancora sottovalutato, eppure in grado di emozionare ben più profondamente di baracconate, e mi si passi il termine, come questa.
Curiosità
Dopo i titoli di coda, una breve e imperdibile scena. Brett Ratner è anche regista della puntata pilota di Prison Break, e produttore esecutivo della stessa serie
A cura di Francesca Bertazzoni
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