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La parola all’imputato

La parola all’imputato

Alla vigilia delle sue nozze d’oro con il cinema, l’ottantaduenne Lumet, Oscar alla carriera nel 2005, torna nell’aula di un tribunale dove girò diversi capolavori, basti citare La parola ai giurati (Twelve angry men, 1957) e Il verdetto (The verdict, 1982), per raccontare a modo suo il processo più lungo della storia giudiziaria americana. Stavolta, però, le gag, i proverbi a ritmo jazz e un titolo italiano adatto per una commedia demenziale definiscono un tono complessivo di leggerezza che, superata una fase centrale a rischio stasi, vira senza forzature verso un mix ben dosato di commedia e dramma accompagnato da una colonna sonora che enfatizza il tema malinconico.

Spazi chiusi e attori stipati
Affascinato da sempre dalla parola e dagli psicodrammi consumati in luoghi chiusi, Lumet minimizza i movimenti della macchina da presa e costruisce la regia sulla composizione delle inquadrature per orientare le emozioni dello spettatore verso sguardi e dialoghi. L’aula di tribunale ricostruita sul set è stata appositamente allargata per contenere i molti imputati ripresi per scelta narrativa sempre uniti, quasi ammassati, come fossero un’unica entità. “Il regista di attori” più noto di Hollywood ha sorprendentemente scelto Vin Diesel, specialista di action-movie, per il ruolo di protagonista e l’attore, madre caucasica e padre afro-americano, lo ha ripagato rendendosi credibile nella parte del mafioso italo-americano. Il cast è completato dalla presenza di diversi esperti caratteristi tra cui è da sottolineare l’ottima prova di Peter Dinklage (l’avvocato Klandis) e di Annabella Sciorra, affascinante e intensa in una breve scena che lascia il segno.

Ironia e paradosso per attaccare il sistema
L’apparente sensazione di aver visto un buon film di svago muta presto. Il Lumet politico liberale di origine ebraica attacca con spavalderia l’establishment attraverso un sottile quanto evidente parallelo tra la Legge Antimafia degli anni ottanta e il recente Patriot Act, simboli dei soprusi dei governi Usa sulle minoranze. Affascinato spudoratamente dal senso di fratellanza dei mafiosi, il regista denuncia con l’ironia e il paradosso le contraddizioni del sistema designando come simbolo “scorretto” della ribellione un istrione bugiardo dal parrucchino rosso. Una diversità sottolineata anche registicamente nell’arringa finale dove gli avvocati sono ripresi in primissimo piano mentre per DiNorscio l’inquadratura si allarga e la macchina da presa si posiziona tra la giuria, il suo vero pubblico. La pellicola più gioiosamente pessimista del grande regista di Philadelphia: a quasi cinquant’anni dall’esordio, “il tempo non (s)fugge” ancora a mister Lumet!

Curiosità
Gli sceneggiatori hanno utilizzato la trascrizione delle testimonianze originali del processo e intervistato il vero DiNorscio, morto durante le riprese, prima telefonicamente e poi incontrandolo in carcere mentre Vin Diesel, per preparare la parte, è ingrassato di circa venti chili e ha frequentato alcuni dei protagonisti del processo.
Sidney Lumet, oltre che notissimo regista, è anche autore del manuale di cinematografia “Making movies” un best seller da diversi anni.
Una battuta da ricordare, peraltro l’unica che non provoca risate tra i giurati, è pronunciata dal protagonista prima dell’arringa finale «Non sono un gangster ma un gag-ster».

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