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Miniera d’odio

Miniera d’odio

Visto da lei
Sesso debole, abuso, rivendicazione sociale, parità dei diritti: tutte parole con cui ci si riempie la bocca e spesso le pellicole sicuri che più si scenderà in basso tanto più avrà forza la vittoria sui vinti in quel tanto celeberrimo processo finale da cui tutti escono sicuramente “giustiziati”.
Ma cosa accade quando è una donna a raccontare dell’abuso sulla donna? Ecco che pariscono come per incanto le spigolature, gli eccessi. Niente più scene di violenza nude e crude, non c’è traccia della ricerca spasmodica dello shock emotivo. Tutto finisce sotto la superficie in una dimensione di disagio interiore esclusivamente femminile che finisce per condannare il principio dell’affronto e non la sua entità.
Merito, quindi, alla regia di Niki Caro che, senza sporcarsi le mani (e badate che in miniera è piuttosto difficile), riesce nel tentativo di inquadrare una vicenda complessa traghettando buona parte della platea fino alla fine. La vittoria sul pubblico non è assoluta: colpa del ritmo blando del metraggio che, per quanto detto sopra, segue un flusso mentale quasi impercettibile e a tratti inesorabilmente lento.

Prima donna poi minatrice
Pezzo più importante del puzzle è naturalmente la protagonista, che in taluni casi è non solo personaggio ma anche scenografia e colonna sonora. Per intenderci l’azione si sposta letteralmente nella mente di Josey (Charlize Theron) di cui le foreste fredde del nord Minnesota e i silenzi nella casa paterna sono solo un riflesso che parla di isolamento e di abbandono.
Charlize Theron non si fa pregare e come ha spesso fatto (vedi Monster – id., Patty Jenkins, 2003), si sfila i panni della diva per infilarsi, in questo caso, una tuta da lavoro grigio topo. Comincia qui la parte più difficile, quando le viene richiesto di rappresentare una donna che scuote il Sistema. Non ci sono minigonne e tacchi alti o cartelline sottobraccio ad aiutare la scalata (beata Erin Brockovich – id., Steven Soderbergh, 2000), solo un toast in una tasca e ciò che resta della femminilità nell’altra ma il risultato è buono. La lotta è impari ma sempre dignitosa anche nei momenti di maggiore scoramento in cui la donna non svende mai la sua determinazione cedendo agli eccessi della reazione emotiva o all’irrisione dell’avversario. Persino di fronte alla malattia e all’infermità, vividamente interpretata da Frances McDormand (Glory), il contegno è massimo.

Silenzio in aula
Su queste linee guida si svolge anche il processo finale che non è affatto il punto di forza del film, contrariamente a un cliché arcinoto. Per tutta la pellicola rimane a far da sfondo alla vicenda e si rivela infine un semplice epilogo che può lasciare lo spettatore insoddisfatto ma che rispetta a pieno la sfumatura introspettiva del film. Manca un palco su cui lapidare i vinti a suon di colpi di scena. Non c’è teatralità né spettacolarità ma il nudo e ben oliato ingranaggio della giustizia che si muove sotto i nostri occhi mai per premiare ma solo per assegnare pene da scontare. Come a dire che una volta varcato il limite, quale che sia la parte lesa, l’umanità ha perso comunque.

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