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cultura dell'immagine e della parola

Flessibili come un depliant

Flessibili come un depliant

Ho ventiquattro anni e sono un precario. Anche i miei amici sono precari.
Domenica scorsa sono andato nella mia associazione culturale di fiducia e mi sono gustato Il Vangelo secondo Precario, un film realizzato con un budget esiguo (40.000 euro) messo insieme grazie al sindacato degli atipici, alle sottoscrizioni dei privati e distribuito attraverso un sito internet. Insomma, un film precario che parla di precariato.
Al termine della proiezione, origliando i discorsi degli altri partecipanti al cineforum, ho sentito solo commenti del tipo: “uguale a quello che succede a me”, “cacchio, domani vado al call center col magone, però sono contento di averlo visto” o anche “gente, ma qui siamo messi veramente malissimo”.
E così mi sono accorto che tutti gli iscritti alla mia associazione culturale di fiducia sono precari.
Ora, visto che non è mia abitudine chiedere alle persone che intendo frequentare di farmi visionare il loro contratto di lavoro, le ipotesi si riducono forzosamente a due: o io mi trovo al centro di una sorprendente serie di coincidenze, oppure di questo bel lungometraggio c’era veramente bisogno. Tertium non datur, per dirla alla latina (lingua molto apprezzata dai precari con un paio di lauree in tasca).

E allora accogliamo con gioia questo Vangelo che “viene dal basso”. Un intreccio di storie reali, neorealiste e surreali. Un prodotto piccolo ma inequivocabilmente incazzato, che riesce a fare dei suoi limiti un punto di forza.
Che sia stato realizzato in economia si nota subito, ma questo aspetto non lo penalizza. Anzi, la palese esibizione delle proprie lacune lo rende ferocemente diretto e, in un certo senso, più potente.
Le vicende di Marta, che si ribella, di Franco che sceglie di credere in sé stesso, di Dora che scopre di poter cambiare il mondo attraverso la fantasia e di Mario che invece diventa consapevolmente un mostro, ci piombano negli occhi senza filtro.
Imperfette, disturbanti, tragicomiche, queste storie sono anche le nostre storie.
Caso isolato – se non unico – in uno scenario tutto italiano di commedie che non fanno altro che riflettere all’infinito miti televisivi sempre più artificiali o cercare una facile via di fuga nella comicità più sbracata, questo film decide di parlare a noi e di noi. Forse questa è una di quelle cose che al nostro cinema dovremmo chiedere di fare un po’ più spesso.

A questo punto, quantomeno per una questione statistica, immagino che anche voi che state leggendo questo articolo siate per la maggior parte dei precari. Ecco, se posso, vi invito a farvi un giro sul sito del film e a procurarvene una copia da far vedere agli amici o da diffondere attraverso proiezioni pubbliche.
Fatelo con lo stesso spirito con cui ogni mattina inviate il curriculum a una nuova azienda e ogni sera innalzate una preghiera per un posto fisso a un santo di cui iniziate a dubitare.
Scommetto che poi vi sentirete meglio. Meno soli, soprattutto.

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