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I robottini hanno le gambe corte

I robottini hanno le gambe corte

Lanciato l’incipit di quest’ultimo Pinocchio animato, è difficile prevedere le reazioni dei lettori / spettatori: chi preferirà la storia del pezzo di legno, chi quella del robottino, chi detesterà entrambe. Sicuramente è più spontaneo esternare le perplessità di fronte a questo nuovo cyber Pinocchio, termine ultimo (ma solo momentaneamente, ché Collodi genera sempre nuove filiazioni) di una tradizione che riunisce nientemeno che Collodi, Walt Disney, Monicelli, Benigni e Spielberg / Kubrick.

Il dubbio è addirittura ontologico e mette in discussione la necessità di scomodare Pinocchio, Collodi e l’illustre tradizione sopra ricordata. Il cuore del film, cioè la necessità dell’uomo e della natura rispetto alla macchina, non sembra giustificare la meccanizzazione del burattino di legno. C’era bisogno di un Pinocchio per lottare contro uno schiavista metallizzatore? Il matrimonio fra le due vicende, quella antica e quella nuova, non è fecondo e non arricchisce nessuna delle due parti.
Le corrispondenze fra il mondo del burattino di legno e quello meccanico sono puntuali e quasi tutte e sfavore del secondo: Fata Turchina / Cyberina, il Grillo Parlante / Spencer, il Gatto e la Volpe / gli aiutanti di Scamboli, la pancia della balena, il Paese dei Balocchi / Scambolandia. Soltanto la società dello spettacolo di Scamboli regge il confronto con il teatro di Mangiafuoco, ma probabilmente il merito sta nella lungimiranza di Collodi, più che nell’arguzia degli animatori moderni. Negli altri casi il passaggio dal vecchio al nuovo lascia cadere tutta la poesia che fa del burattino di legno un classico senza tempo né frontiere, a partire dal sentimento universale che lega un padre e un figlio o la disperazione di fronte alla morte.

L’adattamento di Robichaud sembra rivelare infine un’idea opinabile di un testo classico, cioè che questo necessiti di una riattualizzazione per essere proposto al pubblico. La modernità di Collodi si afferma invece per se stessa, forse anche in misura maggiore, nella sua forma antica (come Polanski ha recentemente ribadito l’attualità di Dickens mantenendolo fedelmente), perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (Italo Calvino). Paradossalmente alla fine si concorda con Robichaud: meglio i bambini veri e i burattini di legno che i moderni cuccioli di latta.

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