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Due estranei in cucina

Due estranei in cucina

Tesoro, sono tornato
La prima impresa che va riconosciuta al regista Doug Liman è quella di aver solo provato a immaginare Angelina Jolie nella parte della tenera mogliettina e Brad Pitt in quella del docile maritino. La seconda, non meno audace, è di essere passato con molta naturalezza dalle parole ai fatti tentando di rendere dimesse e casalinghe due figure così ingombranti. Si può ben comprendere con che difficoltà la Jolie si sia infilata nell’abitino verde oliva, impostole nei primi minuti del metraggio, e come avrà sofferto il golfino grigio topo di Pitt nel contenerne i pettorali. Fatto sta che, paradossalmente, la parte più convincente del film si gioca su questo frangente. Nella prima parte della pellicola, l’effetto contenitivo della sceneggiatura sui protagonisti finisce per metterne in luce quelle qualità recitative altrimenti abbagliate dalla sola presenza scenica. Solo così possiamo scoprire il lato goffo-comico per nulla scontato di Pitt che, finora, aveva dato il meglio in ruoli che richiedessero una altrettanto ricercata mimica assente, come nel semidio di Troy (id., Wolfgang Petersen, 2004) o nell’angelo della morte Joe Black (Vi presento Joe BlackMeet Joe Black, Martin Brest, 1998). Stesso discorso per la Jolie della quale, una volta tanto, possiamo cogliere l’aspetto più quotidiano, quasi materno. E dire che bastava toglierle di mano le pistole e metterci un neonato, più difficile a dirsi che a farsi. Insomma, se volessimo definire la pellicola una “commedia d’azione”, potremmo dare un sette e mezzo alla commedia e un sei stiracchiato all’azione.

Fuori i coltelli
Quest’ultima infatti arriva dirompente e domina tutta la seconda metà del film. Anche se, da protagonista assoluta, risulta meno efficace di quanto non fosse da co – protagonista assieme alla commedia. Come se perdesse mano a mano di significato, rimane sganciata dalla trama e persino dai personaggi riducendosi a un puro esercizio di stile. Gli effetti speciali si sprecano ma rimangono un magro boccone se confrontato ai duetti verbali dei protagonisti di cui il pubblico continua ad avere sete. Ma i robusti ingranaggi dell’azione hanno ormai preso a girare e il turbinio di esplosioni, pallottole, mine e caricatori richiede il suo finale… col botto! E il lieto fine arriva infatti, ma è scontato e surreale, senza coraggio e intraprendenza.

Illustri antenati
Non si può non pensare che la sceneggiatura vagheggi in alcuni passaggi chiave la mitica Guerra dei Roses (The war of the Roses, Danny DeVito, 1989) in cui Michael Douglas e Kathleen Turner si affrontavano a viso aperto. Lo scontro casalingo (inteso in senso fisico) assume una forma ben più compiuta qui, arrivando a definirsi l’unica strada verso la riconciliazione finale. Lo stesso non si può dire per la nuova pellicola che è caratterizzata dal tentativo, non riuscito, di dare ai due protagonisti quell’affiatamento e quel pathos che svaniscono improvvisamente al primo colpo di bazooka. Manca, su tutto, la capacità di colorare qualsiasi gesto, anche il più estremo, con una sfumatura di sentimento che trasformi una guerriglia fredda e sofisticata in una intima lotta che liberi l’ultimo ostaggio del nostro egoismo: l’amore.

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