I cartoon di Tim Burton
È stato il bacio fra Bob Hoskins e Roger Rabbit a celebrare l’unione fra cartoon e umani, cinema d’animazione e cinema dal vero, almeno agli occhi del grande pubblico. In realtà nel cinema raramente si inventa qualcosa completamente ex novo, e la contaminazione fra le due arti percorre l’intera storia del cinema, risalendo nientemeno che a Georges Méliès e alle sue féeries. Il cinema contemporaneo sembra essere riuscito, in alcuni casi, a fondere quasi completamente le due arti. Si potrebbero citare Matrix, Star Wars e Il Signore degli anelli per l’uso degli effetti speciali, ma non possiamo non segnalare quei registi che passano con disinvoltura al di là dello specchio sottile che separa, o forse che riflette l’uno nell’altro, i due gemelli dell’immagine in movimento: Robert Zemeckis, Joe Dante, Terry Gilliam e, meglio e più di tutti, Tim Burton.
La produzione d’animazione non può essere considerata una componente minore nell’opera burtoniana. Non bisogna dimenticare che Burton muove i suoi primi passi proprio nell’impero disneiano dell’animazione, che gli produce il cortometraggio Vincent (realizzato nel 1982 con soli sessanta dollari), e che prima di allontanarlo gli permetterà la realizzazione di Frankenweenie (id., 1984) e si avvarrà della sua collaborazione per Taron e la pentola magica (The Black Cauldron, Ted Berman e Richard Rich, 1985), considerato il più horror dei lungometraggi disneiani. E se la regia di Nightmare before Christmas (1993) è da attribuirsi a Henri Selick (grande prova di lungimiranza da parte di Burton, che affida la regia del suo lungometraggio a uno dei maghi dell’animazione di pupazzi, che si tuffa nel lavoro con un entusiasmo ineguagliabile), Corpse Bride sancisce senza ombra di dubbio l’unitarietà poetica ed estetica dell’animazione burtoniana. Ma soprattutto, in un’opera compatta, cosparsa di attori feticcio e a volte perfino monotematica come quella burtoniana, dove la parte sta sempre per il tutto, l’animazione gioca il ruolo di qualsiasi altro film nell’interpretazione della poetica dell’autore.
I film d’animazione di Burton rimandano continuamente l’uno all’altro, a partire dai nomi: se Edward è il nome per eccellenza nel suo cinema da vero, nell’animazione gli eroi burtoniani si chiamano Vincent o Victor (come anche il protagonista di Frankenweenie) e, oltre che vivere un conflitto con la famiglia, disegnano o girano dei film. Insomma, sono la proiezione di Burton stesso, oltre che a rappresentare il consueto personaggio inadeguato per la società. Victor di Corpse Bride è veramente il calco di Vincent (e difatti il papà di Victoria, a un certo punto, confonderà il suo nome chiamandolo Vincent): disegna con una piuma d’oca su un foglio di carta, ha un cane (come anche Jack Skeleton) e, soprattutto, verrà a contatto con i mostri del mondo dei morti.
La pietà di Burton per tutti i suoi personaggi, i suoi freaks (come dimenticare il Pinguino di Batman – il ritorno, 1992), inizia proprio da Vincent, bambino infelice che attraversa lo specchio per conoscere gli incubi degli adulti. Se il cinema di Burton mette continuamente in contatto due mondi, i protagonisti che egli ama di più sono proprio quelli che hanno trovato il modo di varcarne la soglia. In Vincent l’abisso che si accende e si spegne con l’interruttore della lampadina è la psiche del bambino, buia come il mondo dei morti in cui vive Jack e che Victor dovrà attraversare. In Vincent, però, i due mondi resteranno separati e non comunicanti fra loro (la mamma non lo comprende, gli ordina di andare in giardino a divertirsi). Nightmare before Christmas e Corpse Bride, invece, celebrano di fatto la conciliazione fra i due regni antagonisti: quello dei vivi e quello dei morti. In maniera burtoniana, cioè parteggiando per i brutti e cattivi spettri.
Annoiato da Halloween, Jack Skeleton cerca il divertimento altrove, nel mondo del Natale. Finirà per spaventare a morte tanti poveri bambini che troveranno giocattoli orripilanti e un ghigno scheletrico ad augurare loro un Buon Natale, invece del consueto tondo faccione di Santa Claus. Come da ogni sceneggiatura, alla fine Jack troverà se stesso, riconoscendo che il suo posto è in Halloween. Jack non troverà nel mondo dei vivi il caldo tepore dell’amore che ha respirato attorno alla casa di Babbo Natale: l’amore più grande che può ricevere è già accanto a lui, nel mondo dei morti, nella saggia ragazza – Frankestein che lo contempla da lontano.
Anche Victor scoprirà l’amore nel colorato regno dei morti, dove gli scheletri danzano e si divertono tutta la notte. Corpse Bride è il compimento perfetto della morale – che non è moralismo – iniziata in [Italic]Nightmare: lì si legittimava il mondo dei morti e si riconosceva che Halloween è necessaria come il Natale, qui si celebrano le nozze fra l’amore e la morte, poesia delicatissima che vola sulle ali di una farfalla o si ascolta nel duetto al pianoforte di Victor con La Sposa. Attraverso i morti si riscoprono gli antichi affetti, e infischiamocene se sono passati quindici anni dalla morte del nostro amore più caro.
Varcando la soglia in senso inverso, vorrei tornare al cinema live di Burton, la cui ultima espressione è il favoloso La fabbrica di cioccolato. La caratteristica principale del cinema d’animazione è il totale controllo del profilmico, vale a dire di tutti gli elementi che compongono l’immagine, sia del testo che del sottotesto. Un regista d’animazione crea un mondo dal nulla: può quindi permettersi, per ogni suo elemento, di deciderne la forma, [img4]il colore, le dimensioni; un cineasta dal vero, per quanto meticoloso e preciso, dovrà comunque scendere a patti con delle componenti di casualità e di imprevisto che il cinema comporta. Regista dei due mondi, ho l’impressione che Tim Burton, con Big Fish e La fabbrica di cioccolato, si stia avvicinando sempre più al totale controllo del profilmico: dalla costruzione impeccabile della scenografia al trucco e costumi degli attori, ai corpi dei bambini che, proprio come dei cartoon, si colorano e si deformano a piacimento del regista. Che sia proprio per questo che Tim Burton non si stanca mai di creare mondi nuovi e strabilianti: per dominare ogni elemento delle sue immagini, per essere, nel senso più pieno del termine, autore.
A cura di Fabia Abati
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