Immagini, prima di tutto
Ho sempre pensato che i lavori di Tim Burton dovessero iniziare con la frase: “C’era una volta, in un paese lontano lontano…” e poi continuare con “una giovane coppia di fantasmi” oppure “un misterioso uomo–pipistrello”, o ancora “un giovane dalle mani di forbice”, “un uomo che creava mostri veri”, “un gruppo di alieni verdi e macrocefali”, “un crudele cavaliere decapitato”, “una città popolata da scimmie”, “un vecchio che si trasformò in pesce”, “la più grande e fantastica fabbrica del cioccolato del mondo”.
Può essere frustrante analizzare i motivi più profondi delle opere di Burton: ci si può rendere conto di come, sempre e incessantemente, il regista cerchi di raccontare la medesima storia. Azzardo una definizione, qualcosa di molto vicino alla semplificazione: Burton parla di ambiguità tra il reale e l’immaginario, cammina su un terreno a metà strada tra il mare e la sabbia, dove le due sostanze si fondono e confondono.
«Quello che mi interessa è la contrapposizione tra realtà e fantasia. Sono più attratto dai confini molto sottili tra le due cose: spesso quello che viene percepito come realtà è fantasia, mentre quello che può sembrare fantasia è la realtà» (Tim Burton intervistato da Marco Spagnoli in www.delos.fantascienza.com). Questa è la sua semplice intenzione, chiara in ogni film. Ma sono le immagini e i mondi creati a togliere il respiro e ad essere, prima di qualsiasi teorizzazione, i cardini della fantasia burtoniana e il fascino del suo cinema. Per questo, preferisco di gran lunga immaginare, piuttosto che parlare.
Le visioni: dai titoli di testa all’infinito
La sua ultima follia visiva, La fabbrica di cioccolato. Già da subito, ecco il marchio di Burton: macchine e meccanismi di ferro e acciaio che si muovono, vivono, che nelle loro forme inventate richiamano la fisionomia umana. Braccia, gambe, piedi che pestano, mani – artigli ad afferrare. Oggetti prima di tutto, ma favolosi nel senso di riferibili al mondo delle favole. Proprio come Edward mani di forbice, che inizia con i volteggi della videocamera sui macchinari antropomorfi, strane inquadrature di scale polverose, porte di legno e ferro. Ancora, Batman sviluppa i suoi titoli di testa attraverso lo scorrimento liscio, da giostra volante, dentro incomprensibili muri di pietra grezza e ondeggiante; scopriamo poi, con un’inquadratura allargata, che eravamo proprio dentro il vessillo dell’uomo pipistrello. Batman il ritorno sceglie, invece, gli antri cavernosi delle fogne dove viene gettato il pinguino: ne segue il percorso lentamente, addosso alle pietre bagnate, e già allude con le immagini al carattere e alla fisionomia del nemico dell’eroe di Gotham. Similari ancora gli incipit di Il pianeta delle scimmie e di Mars Attaks!: il primo si sviluppa addosso all’armatura e ai simboli di un guerriero scimmia, l’altro disegna una danza di dischi volanti rotanti che, nello spazio, costruiscono forme geometriche, come ballerine di nuoto ritmico. Non si scosta molto da questa tendenza anche Il mistero di Sleepy Hollow: è il dettaglio a creare il mistero iniziale, passando, sulla carta pergamena scritta e sul liquido rosso sangue della cera calda impressa con il marchio della famiglia Van Garrett. E Big Fish, film parzialmente differente dagli altri, si accontenta di accostarsi al corpo del grosso pesce, rivelandone, a tratti, la fisionomia misteriosa.
Architetture da favola
Strano mondo quello di Timothy William Burton, dove mai nulla è fuori posto o disarmonico: ricordo Spectre, città dove il protagonista Edward Bloom di Big Fish finisce casualmente, così ordinata e lucida, con le scarpe appese a un filo tra due alberi. Appare così simile alla cittadina dove viene accolto Edward Scissorhands: un gruppo di casette caramellose, verde pistacchio dei prati e fragola dei mattoni, dove ogni filo d’erba è ordinato con gli altri. Architetture da favola davvero, figlie forse del paese dove si svolsero le vicende del “bio-esorcista” Beetelgeuse nel film Beetlejuice – Spiritello porcello: incerto se dichiarare da subito l’irrealtà della storia che si apprestava a narrare, Burton ci fa lentamente planare su una cittadina “rose e fiori”, ordinata e profumata, dove anche il cimitero ha un certo stile, con croci gotiche e classiche incisioni su lapidi tipo cartoon. Salvo poi farci meravigliare quando, alzata la macchina da presa, ci accorgiamo che la cittadina altro non è che un plastico, un modellino (magari proprio di quelli che si usano per fare il cinema?!) della “vera” città dove la storia si svolgerà.
Parlare di architetture non può non far balzare alla mente quella città fantastica che è stata la Gotham City di Tim Burton: fumetto gotico spruzzato del gusto proprio del regista per le forme arcuate; quelle tondeggianti figure che sembrano la firma della sua immaginazione, arcate e ponti, finestre che si curvano in ogni angolo, che all’estremo diventano la lettera “W” stampata sulle tavolette di cioccolato Wonka o la montagnola dove Jack Skeleton canta in Nightmare before Christmas, che finisce arricciandosi su se stessa in una strana figura elastica. Non meno gotico è il villaggio di Sleepy Hollow: la prima volta che lo vediamo è una mattina brumosa, l’atmosfera è pallida e fumosa, le case annerite con il tetto a punta, alberi scheletrici e oscuri. Forse Gotham City, nelle sue immaginarie origini era proprio così…
Le domande sono meglio delle risposte
Per certi versi Big Fish riesce a racchiudere e rendere chiara ogni sfumatura di cui Burton è capace. Da un a parte, è presente nel film lo stile cosiddetto “gotico” che lo contraddistingue, ma che io preferisco considerare come la parte visivamente oscura e misteriosa che c’è in ogni favola: uno stile stregonesco, umido e nebbioso, per descrivere la megera dall’occhio di vetro, o per il bosco infestato di ragni che porta a Spectre; qui, anche la concretezza degli effetti cinematografici senza computer grafica riesce a creare un mondo nero, vivo e vero, anche se è solo una storia. Dall’altra parte, Burton inserisce nel film anche quello stile rotondo da favola a lieto fine: un esempio, la luce che emana dall’inquadratura di Edward Bloom in un prato di asfodeli gialli mentre cerca di “convincere sua moglie a sposarlo”.
Ecco che, quando dalla storia si torna alla vita concreta, ci si accorge come sia più interessante l’invenzione: come sarebbe la realtà senza un racconto che la renda vivibile, come si potrebbe vivere se non raccogliendo gli eventi in storie, [img4]per poi raccontarle, per poi descriversi e rendersi eterni. Quanto sono finti i racconti di Edward Bloom? Quanto c’è di vero in tutte le sue storie? Molti hanno vissuto e amato quelle avventure, in una parola, ci hanno creduto e per questo le hanno rese reali. Vale la pena inventare storie incredibili, per questo motivo il regista continua a raccontare il suo eterno bisogno di favola nei suoi inesauribili mondi. Il cinema si incunea proprio in questa fessura così piccola: tra l’immaginazione e la realtà stanno i mondi di Tim Burton.
Molti hanno detto che Big Fish è il suo capolavoro, non credo che le definizioni si addicano ai suoi film. Preferisco nutrirmi ancora per tanto tempo delle piccole e saporite fette della sua fantasia.
A cura di Francesca Bertazzoni
approfondimenti ::