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La colorata poetica della morte

La colorata poetica della morte

Dualismi immaginari di Carlo Prevosti

Quello che sorprende nel cinema di Tim Burton è la sua capacità di rimanere fedele all’immaginario che si è costruito in tanti anni di carriera. Fin dai primi passi mossi nella Disney con il corto Vincent (id., 1982), primo approccio alla tecnica dello stop-motion, già era presente in nuce la poetica burtoniana nella sua interezza. In cinque minuti di un bianco e nero degno dei classici della Hammer, Burton costruisce la figura di un ragazzino di sei anni che si crede Vincent Price, aprendo il suo tipico filone narrativo dell’inadeguatezza dell’infanzia. Stupisce inoltre la fedeltà che Burton dimostra verso il suo immaginario visivo fatto di corpi allungati, mostri sinuosi e deformi, clown dai sorrisi piragneschi che si ritrovano in Nightmare before Christmas (id., Henry Selick, 1993) e ne La sposa cadavere, ma anche in Beetlejuice (id., 1998), in Edward mani di forbice (Edward Shissorhands, 1990), in Big Fish (id., 2003) e nei due Batman (Batman, 1989 – Barman Returns, 1992).

Burton prende lo spunto da un’arcaica fiaba russa incentrata sul topos narrativo dello scambio di persona e dell’equivoco. La fiaba tradizionale viene virata da Burton e dai suoi sceneggiatori nei toni gotico-vittoriani che ama per rappresentare città cupe e dense di ombre oscure, oltre che personaggi deformi nel loro essere fisico e caratteriale. Il gioco delle opposizioni sottolinea il dualismo tra vita e morte, così come tra luci e ombre, buoni e cattivi, uomo e donna (indicativo che i due promessi sposi richiamino nei loro nomi il celebre film di travestitismo Victor / Victoria – id., Blake Edwards 1982). Il rapporto tra opposti dimostra però i suoi lati inaspettati e, così come accadeva in Beetlejuice, il regno dei morti si rivela molto più colorato, pulsante e vitale di quello dei vivi, cupo e dai toni tendenti al blu (blue in inglese significa anche malinconia) chiuso in una visione medioborghese e fatalista della vita umana. Non a caso è proprio la sposa cadavere a “vivere” con maggior trascinamento questa improvvisa storia d’amore che strappa Victor al matrimonio combinato fra le famiglie, dove l’amore capita per caso, in modo assolutamente passivo.
Gli schemi del dualismo sono però troppo forti e davanti all’ardente passione del diverso avrà la meglio il tenue fuoco degli uguali, quasi a dimostrare l’assioma burtoniano che non vi è mai pace per coloro che cercano di estraniarsi dal proprio mondo, tanto per la “sposa” quanto per Jack Skeletron, o Edward, o Vincent, o Ed Wood, o Bruce Wayne.

Burton non si limita a costruire una storia horror che suscita meraviglia, applica un procedimento di secondo livello cucendo i pupazzi animati direttamente sulla pelle dei suoi attori feticcio, di quelli che durante la sua carriera hanno avuto il privilegio di lavorare al suo fianco e da lì non si sono più allontanati. Victor non ha la voce di Johnny Depp, Victor è Johnny Depp, attore di indiscusso camaleontismo ma capace di rappresentare lo straniamento dei personaggi di Burton quanto nessun altro. Analogo discorso per la sposa cadavere e Helena Bonham Carter o Victoria ed Emily Watson.
Meraviglia di tecnica e di capacità narrative, La sposa cadavere è a tutti gli effetti un capolavoro, ennesima prova delle capacità del cinema d’animazione, spesso sottovalutate. Come per Nightmare, anche Corpse Bride è puntellata da scene musicali e coreografie (da segnalare la dance macabre di scheletri ballanti che omaggiano la prima delle Silly Simphonies di Disney, la Skeleton Dance, 1929) degne di Broadway, dando un’ulteriore prova dell’abilità di compositore di Danny Elfman, ma anche del reparto di animazione che è stato in grado di muovere i personaggi con una grazia e una fluidità strabilianti.

Canto di vita, volo di libertà di Matteo Mazza

La libertà prese con sé il Cinema e volò via. Ora ha le sembianze di una sposa divenuta farfalla, di un corpo divenuto anima. Leggerezza d’animo, desiderio di volare. L’amore diviene esperienza vissuta. Prima immaginata, poi modellata e infine creata. Fatta carne ma soprattutto ossa. Corpi che comunicano. Menti che spaziano verso confini indefinibili. Corpi in-finiti. Menti libere, aperte. L’imprevedibilità di ciò che è disordine è colore. L’asfissiante ovvietà del pre-stabilito che è l’ordine è grigiore. La morte è vita altrove. La vita è morte e basta.

Il capolavoro burtoniano (co-regia di Mike Johnson) nasce sottoterra ed esce dalle tombe. Si plasma nella terra viva (il mondo dei morti) e cresce in una terra arida (il mondo borghese). La sposa cadavere è un puro canto di vita. Una gioia visiva. Una contaminazione di corpi e menti che si incontrano, ma che abitano universi paralleli. È ancora una volta un canto del diverso. Che si materializza in qualcosa di molto lontano dal terreno. Questa volta non è solo un diverso fisico o ideologico (come nel caso di Edward mani di forbiceEdward Scissorhands, 1990 – e Nightmare Before Christmas, – The Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, Henry Selick, 1993). In questo caso è un diverso metafisico. Ultrafisico. Fuori / verso la libertà. La sposa conserva nel cuore spezzato l’animo di chi ha perso l’amore e non l’ha più recuperato. Un animo rinchiuso in gabbia. Costretto. Soffocato. Infelice. Ma ancora fiducioso.
Burton costruisce un nuovo ossimoro visivo (dopo il dualismo Nightmare / Babbo Natale) e parla di vita e morte ancora una volta. Tende l’arco e scaglia una freccia appuntita. Centra il bersaglio. Euforia di colori e suoni. Festa di canzoni e ritmi. Sagome e ombre. Un gioco di rami e boschi, curve e lune piene. Dramma e melodramma. Graffiante comicità e sottile dolcezza. Mondi alteri, che sono altro. Un’alterità che è come un’impronta, una traccia. Che a volte si nasconde altre volte si manifesta. Le tracce che lascia sul cammino sono sempre identificabili.

Ma Burton parla anche di infinito. Una concezione di tempo e spazio fuori dalle costrizioni. Libere interpretazioni di luoghi che vengono coabitati. E creati. Perché Burton è un creativo. Uno che tiene la mente come tiene i capelli, al vento. Un disegnatore. Un inventore. Ma prima di tutto, Tim Burton è un creatore. Guarda al Cinema da varie angolazioni e offre punti di vista diversi. Sguardi commossi e malinconici, che accolgono un Cinema che incanta, emoziona, fa sognare e volare. Un Cinema che crea gioia e speranza. Che fa pulsare sempre un nuovo cuore. Chi guarda ama. E poi ricorda. Perché il ricordo è un pensiero che va oltre. Qualcosa muore ma rinasce sotto altre forme. Con nuovi colori. Costantemente. Infinitamente.

Curiosità
I centoventi personaggi del capolavoro burtoniano / johnsoniano hanno passeggiato in ben trentasei set isolati l’uno dall’altro da spesse tende nere. Riprese simultanee, a tempo pieno, senza però alcun intervento della macchina da presa. Esclusivamente bombardamento di macchine fotografiche digitali. Dieci anni di lavorazione. Cinquecento pupazzetti, tra cui 14 fidanzate e 12 Victor.
Victoria, il personaggio di Emily Watson, recita la seguente battuta «Mia madre pensa che la musica sia sconveniente per una signorina di buona famiglia», citando in modo inequivocabile la sposa cadavere Helena Bonham Carter che pronunciava le stesse parole oltre venti anni prima in Camera con vista (A Room with a View, James Ivory, 1985). Déjà-vu o vampirismo cinefilo?

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