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Il coniglio dell’apocalisse

Il coniglio dell’apocalisse

Donnie Darko è un film indefinibile. Difficile raccontarne la trama, densa di incubi e deliri, da un coniglio portatore di sventura a un motore di aereo che piomba inspiegabilmente dal cielo. Impossibile contestualizzare questo film in un genere, non è un horror ma ne ha l’atmosfera, non è un film adolescenziale ma ne sviluppa i temi, non è una commedia ma accenna un vago sorriso ironico. È un film quasi metafisico, tendenzialmente metaforico, sicuramente autobiografico. Non a caso Richard Kelly, alla prima regia, ai tempi venticinquenne ha infuso nelle quasi due ore del film sentori e umori che solo chi ne vive veramente le sensazioni è in grado di trasmettere a un’intera generazione di coetanei. Questa è probabilmente la spiegazione più ovvia al coro di pareri negativi che la stampa americana ha esposto al momento del lancio del film, ma come è ovvio pensare, le voci, almeno quelle reputate più autorevoli, non sono certo quelle di giornalisti coetanei al pubblico di riferimento. Il sessantotto ha insegnato che le giovani generazioni eleggono i propri miti autocelebrandoli, senza che nessuno glieli imponga (era successo negli anni novanta con Il corvo – The crow, Alex Proyas, 1994 – e il suo “non può piovere per sempre”… reattori?).

Donnie Darko è un film che affascina, che strega, che anticipa i tempi, ma che è, soprattutto, capace di trasporre nello spettatore la sensazione di mancanza di certezze e di spaesamento tipica della condizione di un giovane adulto, troppo grande per credere alle favole, troppo immaturo per inventarne di nuove. Forse per questo motivo si sono sprecati i paragoni con Tim Burton, profeta dell’incompletezza e del impossibilità di trovare il proprio spazio nella vita, ma scomodare nomi così famosi (anche Lynch è stato chiamato in causa) è, forse, pretestuoso e fuorviante.

Donnie Darko è un film terapeutico, capace di strizzare le viscere e far uscire lo spettatore dalla sala sollevato, ma con un profondo senso di angoscia di chi si è reso conto che le proprie paure possono essere generalizzate e condivise con altre persone, con la certezza che mal comune non significa univocamente mezzo gaudio.

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