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cultura dell'immagine e della parola

The Shield

Un momento di attenzione, prego, la notizia lo richiede.
Sembrerà incredibile, ma mentre sui media italici si discute senza soluzione di continuità di trash televisivo e porcate varie, ogni venerdì alle 23 su Italia1 va in onda uno dei prodotti più sublimi che la Tv nostrana abbia mai avuto il privilegio di trasmettere.
The Shield, il telefilm poliziesco vincitore di un Emmy Awards e due Golden Globe, che, a partire dal 2002, suo primo anno di programmazione sul network FX, ha iniziato a raccogliere negli Stati Uniti il plauso unanime ed entusiasta di pubblico e critica. È senza ombra di dubbio un capolavoro.
Anzi, di più. È uno sfavillante esempio di fiction di qualità.
A prescindere dai gusti personali, che vedono, per esempio, il sottoscritto seguire ogni puntata del suddetto telefilm in religioso silenzio e con un luccichio negli occhi degno della sala più fastosa del Louvre o degli Uffizi, bisogna infatti riconoscere che The Shield riassume in sé molti degli elementi oggettivi che certificano a ogni latitudine un prodotto televisivo di alta levatura.

Fotografia iperrealista, uso spregiudicato e coinvolgente della camera a mano, ambientazioni credibili rese attraverso immagini ben costruite ed efficaci. Sul piano formale il serial non mostra pecche di alcun tipo. Ma il suo vero punto di forza è la pregevolissima costruzione testuale.
Le vicende del detective Vic Mackey, rappresentante corrotto e violento, ma anche molto umano e a tratti quasi buono, del dipartimento narcotici della polizia di Los Angeles, stretto tra una famiglia allo sfascio, con una moglie sul piede del divorzio, un figlio disabile e le pressioni politiche esercitate da un capo in corsa per una poltrona da sindaco si intrecciano puntata dopo puntata attraverso meccanismi complessi e assolutamente funzionali al mantenimento di un ritmo narrativo mozzafiato.
A questi elementi dobbiamo poi aggiungere degli attori fenomenali, riuniti in un cast corale dove ogni volto è la tessera di un puzzle eterogeneo e, al contempo, totalmente compatto.
Vedere per credere.
Ogni volta che Michael Chiklis, nei panni del protagonista, entra accompagnato da un adrenalinico sottofondo crossover nell’ufficio in cui i tre componenti della sua squadra stanno riuniti come i Bravi di don Rodrigo, fumando e giocando a carte, il teleschermo si fa improvvisamente magnetico.

L’unico rimpianto per noi spettatori è che in Italia fiction così non venga prodotta.

Niente di grave, l’importazione serve a questo. Però sarebbe una bella soddisfazione sapere che anche in casa nostra qualcuno è in grado di esprimersi televisivamente in modo così raffinato.
Sarà forse una questione culturale, sarà che abbiamo un rapporto di maggiore deferenza rispetto alle forze dell’ordine. O forse gli autori chiamati a scrivere i serial temono che il pubblico mauriziocostanzizzato non gradirebbe?.
Fatto sta che nella fiction made in Italy i poliziotti sono tutti integerrimi e rassicuranti, non fanno ricorso alla violenza e si comportano da genitori modello. Sono amati e rispettati in tutto il quartiere. Il barista gli offre sempre il caffè anche se loro vorrebbero pagarlo. Sono buoni e vincono sempre. Sanno quello che è giusto e non hanno dubbi.
E nella loro squadra ci sono almeno un paio di ex-veline e una miss Italia. Due palle, dico io…

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