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cultura dell'immagine e della parola

61° Mostra del Cinema di Venezia

Quest’anno sul Lido non si parlava d’altro che del cinema italiano. Più cinema italiano? Meno cinema italiano? Quale cinema italiano? Sicuramente quello di Ciprì e Maresco. Il cui titolo è, guarda caso, Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio, un anomalo documentario sulla coppia di comici siciliani. Anche i più riluttanti a questo tipo di comicità si precipiteranno a vedere Ultimo Tango a Zagarol o I due della legione. Se invece vorrete ridere fino alle lacrime (di disperazione), non perdetevi Ovunque sei di Michele Placido. Il tentativo di mascherare una boiata pazzesca sotto le parole di Pirandello non ha funzionato per niente: alle battute poco convincenti si aggiungono le interpretazioni piatte di Violante Placido e Stefano Accorsi. Sul Lido, i giorni dopo la visione del film, girava questa battuta: “Coppa Volpi al pisello di Stefano Accorsi”. Buoni invece gli esordi alla regia di Stefano Rulli con Un silenzio particolare, documentario in digitale sul figlio portatore di handicap, e di Tartarughe sul dorso, di Stefano Pasetto, allievo di ipotesi cinema, che realizza una storia d’amore scandita da tempi inconsueti. Convince molto meno la sceneggiatura di Rulli (scritta con Petraglia) di Le chiavi di casa, diretto da Amelio. Forse si è creata un’aspettativa troppo alta su un film non risolto, dal momento che era l’unico film italiano in concorso che sembrava poter aspirare al Leone d’oro.
Pollice verso per Il filo pericoloso delle cose, episodio diretto da Antonioni del film Eros. Positiva invece la risposta agli altri due episodi: il divertente Equilibrium, diretto da Soderberg e La mano, del regista taiwanese Wong Kar-Wai, forse uno dei migliori film presenti al festival.
E’ stato proprio il cinema orientale a dare le maggiori soddisfazioni sul Lido. Per primo segnaliamo Bin-jip, presentato a Venezia come film sorpresa e, infatti, la sorpresa c’è stata: un enorme successo di critica e di pubblico per un film riuscito perfettamente in tutte le sue parti, emozionante ed essenziale, nonostante fosse stato girato un mese prima e il montaggio fosse terminato da pochi giorni. A questo film, solare e armonioso, si contrappone il tenebroso e sofferto Vital (vi anticipiamo solamente che tratta di uno studente di medicina che si ritrova a sezionare il cadavere dell’ex fidanzata) del giapponese Tsukamoto, che già aveva shockato la platea del festival due anni fa con A snake of june. Ampio spazio anche al cinema d’animazione orientale, con Il Castello di Howl di Miyazaki e Steamboy di Otomo. In entrambi prevale il fantastico; più armonico il primo, dall’atmosfera spirituale venata di emotività, più lanciato sul versante dell’azione il secondo, con scene di inseguimento mozzafiato e di battaglie spettacolari. Segnaliamo anche il coreano Sky Blu di Kim Moon-Saeng, cartone animato che contrappone il buio e gli angoli spigolosi alla luce solare e alle forme curve di Miyazaki e Otomo.
Divertentissimo (al limite del demenziale) il primo lungometraggio del giapponese Matsuo Suzuki, Koi no Mon, ironico excursus nel mondo dei manga giapponesi: protagonisti del film sono, infatti, una magaka di successo (Mon) e un giovane (Koi), che tenta di sfondare con i suoi manga di sassi, opere incomprensibili a chiunque.
Dagli Stati Uniti arrivano due dei film che colpiscono di più nel segno, Mysterious Skin di Gregg Araki e Palindromes di Todd Solondz. I due registi confermano il loro talento con dei film difficili e controversi che, nonostante si presentino così diversi, innescano entrambi delle bombe che fanno esplodere le contraddizioni che si aggirano minacciose nel sottosuolo sociale degli Stati Uniti.
Dal cinema europeo arriva un tentativo audace di sperimentazione cinematografica con Strings, del danese Anders Ronnow Karlund: una fiaba in cui non compare nessun attore, ma solo burattini. Il tema fiabesco riaffiora anche in Puteri Gunung Ledang, melodramma malese piuttosto anomalo, che presenta la classica storia da cinema bollywoodiano realizzata però con un budget piuttosto elevato e con qualche scena di combattimento degna di Matrix.
Come sempre il cinema politico è stato ampiamente rappresentato a Venezia. Oltre al vincitore Vera Drake è stato presentato l’ultimo film di Amos Gitai, Promised Land, sul racket della prostituzione in Israele. Fra i momenti in cui Gitai è riuscito a colpire nel segno ricordiamo senza esitazione la scena della vendita all’asta delle prostitute.
Il festival quest’anno ha dedicato una specifica sezione al cinema digitale. Oltre al già citato Un silenzio particolare, una vera rivelazione è stato Tell them who you are, di Mark S. Wexler, un documentario sul padre Heskell Wexler, direttore della fotografia (Qualcuno volò sul nido del cuculo, di Milos Forman, 1975) e regista. Oltre ad essere un ritratto di Haskell Wexler, il documentario è una fotografia dei rapporti fra padre e figlio, dei contrasti generazionali e politici, di due diversi modi di fare cinema.

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