hideout

cultura dell'immagine e della parola

Le vie dei canti

Le vie dei canti

I miti aborigeni sulla creazione del mondo parlano di leggendarie creature che all’origine del mondo avevano percorso tutto il continente e cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano avevano fatto esistere il mondo. La terra sarebbe quindi coperta da una rete di sentieri invisibili chiamati “Piste del Sogno” o “Vie dei Canti”. Ancora oggi percepibili, percorribili.
La piccola Molly Craig, decisa ad abbandonare il collegio-lager per tornare nella sua terra, preferisce seguire una rete più concreta: quella anti-conigli che attraversa l’intera Ausralia (quel “Rabbit Proof Fence” da cui il titolo originale, da noi ribattezzato più banalmente “La generazione rubata”).

Un recinto a dividere in due uno sterminato territorio, già diviso tra aborigeni e bianchi, che non tollerando mescolio di razze hanno, per decenni, tolto sistematicamente i figli mezzo sangue (metà bianchi, metà aborigeni) per crescerli in collegi più simili a prigioni che a scuole.
L’incredibile fuga di Molly (1500 miglia in un mese circa attraverso la desertica Australia con due bambine al seguito) che Noyce ha deciso di portare sullo schermo, è una storia vera, un vero caso dell’epoca, raccontato anni dopo dalla figlia della protagonista nel libro da cui il film è tratto.
Dopo Schumacher (altro regista di action movie hollywoodiani, che con attori sconosciuti e attrezzatura molto leggera ha deciso di cambiare tutto e girare un piccolo film sul Viet-Nam, “Tigerland”, bel film di qualche mese fa) ecco un altro specialista di esplosioni, inseguimenti e sparatorie (con buoni risultati: da “Ore 10 calma piatta”, che lanciò la Kidman dieci anni fa, a “Giochi di potere” e “Sotto il segno del pericolo” i due spy-thriller con Harrison Ford) ma con cadute di tono mica male (chi si ricorda “Sliver”…) che cambia tutto: si ricorda di essere australiano, si ricorda della violenza bianca perpetrata per decenni sulla minoranza indigena aborigena e decide di tornare a casa e fare un film un po’ diverso. (“Bringing it all back home” per citare il buon vecchi Dylan…).

Da esperto di thriller sa tenere la tensione, l’odissea delle tre ragazzine (di cui solo due riusciranno nell’impresa) si segue con partecipazione e il tutto risulta ottimamente confezionato: ottime le tre piccole interpreti, bellissima la fotografia, perfetta la musica di Peter Gabriel, con sequenze che rimangono ben impresse nella coscienza (le bambine strappate con la forza alla madre, le inquadrature finali con le vere protagoniste, oggi, o albe e tramonti su un paesaggio di straordinario fascino, di vastità desertica ).
Un film riuscito, una bella storia raccontata bene che porta alla luce la tragedia di un popolo di cui si parla poco, l’ennesima pagina di violenza e razzismo fatta da bianchi sulle popolazioni indigene, tra le meno note.
Se pensiamo agli ultimi due film di Noyce (“Il Santo”, “Il Collezionista d’ossa”) il salto (di tema) non è male.

Un po’ di amaro in bocca rimane.
Semplicemente poteva essere di più.
Forse in mano ad altri questa storia di viaggio estrema, poteva diventare più epica, più profonda.
Andare oltre, essere più di un (comunque ottimo) prodotto medio.
Accontentiamoci.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»