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cultura dell'immagine e della parola

La forma non abbellisce il contenuto, lo crea…

La forma non abbellisce il contenuto, lo crea...

Dopo la sfortunata gita su Marte di due anni fa, per il suo 24esimo lungometraggio Brian De Palma, uno dei pochi veri autori rimasti in circolazione, torna a confrontarsi con il suo maestro – Alfred Hitchcock – sul difficile terreno del noir “onirico”, confermandosi uno dei pochi cineasti ancora innamorati a tal punto del mezzo cinematografico da sacrificare ogni cosa – logica narrativa compresa – in suo onore.
Tutto è chiaro fin dall’inizio: i primi fantastici e poetici venti minuti (che devono essere costati quanto il resto del film) sono una vera dichiarazione d’amore oltre che l’esibizione di una tecnica che è difficile immaginare migliore. Presa da un’inarrestabile vertigine, la macchina da presa volteggia nello spazio, stringe e allarga su occhi, mani, corpi, abiti, mostra esattamente quello che noi desideriamo vedere. Il montaggio alternato e la musica fortemente empatica, di cui non sapremo mai la provenienza, rendono la sequenza unica, da vedere e rivedere più volte.
Il resto del film si muove lungo questa direzione, e anche senza arrivare alla perfezione dell’inizio si segnalano così tanti altri virtuosismi che sarebbe impossibile elencarli tutti. Tuttavia, bisogna purtroppo notare come in questo senso vi siano anche degli eccessi piuttosto fastidiosi: l’uso del ralenti (quando i due complici lanciano sotto un camion la modella “camouflage”) e soprattutto dell’ossessivo split-screen non sembrano essere giustificati da nulla se non dalla voglia di stupire a tutti i costi, e così la tecnica invece che supportare l’azione diventa fine a sé stessa, protagonista assoluta ed invadente, incidendo negativamente sulla progressione drammatica.
Oltre che per la regia “pura”, il film si segnala anche per la maniacale attenzione per la mise-en-scene. Ogni particolare, ogni singolo dettaglio presente in campo è controllato, studiato, uniforme all’atmosfera della vicenda. Mai come in questo caso si ha l’impressione che il regista abbia trasformato in immagine esattamente quello che era il suo pensiero, ricercando sempre la perfezione e non accontentandosi del semplice “Va bene”.
“Femme Fatale” però non è solo un esercizio stilistico, seppur quasi perfetto. E’ la storia di una donna, o meglio di un inconscio femminile e fatale che sa che il mondo “non è fatto per i buoni” e cerca allora di risolvere ogni situazione a suo vantaggio, sfruttando l’arma più forte di tutte: la bellezza. Come la memorabile Barbara Stanwyck della “Fiamma del Peccato”, Rebecca Romjin-Stamos, bellissima, sensuale e misteriosa, interpreta ottimamente il difficile e indecifrabile personaggio, mentre lo stesso non si può dire di Banderas, il cui temperamento “latino” fatica ad inserirsi nella vicenda.
Così arriviamo al punto più caldo, dal punto di vista critico: la logica narrativa. E in “Femme Fatale”, più che essere forzata tanto o poco, semplicemente, non esiste.
Qui è a mio avviso la grande differenza con Hitchcock: il regista inglese passava per essere inverosimile, ma raramente lo era. E quando proprio doveva esserlo, era solo per alcune sequenze, non per un intero film. De Palma invece costruisce un film su una fantasia personale, un sogno segreto che si muove senza logica rimbalzando tra la realtà e l’immaginazione per poi fermarsi sul Dubbio. Basta questo per suscitare una vera emozione? E’ sempre vero che un regista non deve avere niente da dire, perché deve solo mostrare? Se vuole fare un capolavoro, non solo a livello formale, no (anche se la risposta è personale e, dunque, opinabile). E infatti “Femme Fatale” non lo è. Ma resta comunque un ottimo film che anche se non sarà certo un successo di pubblico (visto anche l’indegno numero di sale in cui è proiettato, conseguenza di una situazione sempre più “all’americana”, ma questo è un altro discorso) merita di essere visto in quanto rappresentante di un modo di fare cinema diverso, molto raro, recentemente imitato con risultati ai limiti del patetismo.

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