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cultura dell'immagine e della parola

Il lungo naso di Benigni

Il lungo naso di Benigni

E la Fatina trasformò Benigni in un bravo bambino *
Di Fabio Falzone

Dove si è perso Benigni?
Durante tutto il film ci si chiede se la “Medusa” (piuttosto che il pescecane) se lo sia inghiottito una volta per tutte. E non è di certo l’unico animale, questa Medusa dalle viscere d’oro, ad avere sedotto il regista e attore toscano fino a renderlo quasi irriconoscibile. Nell’acquario adescatore sguazzano tanti altri pesci dai riflessi oro-holliwoodiani, dalle iridescenze lampeggianti: “Mercato! Mercato!” e perfino qualche cadavere putrefatto a nome Cecchi Gori, iniziale distributore di Pinocchio, prima di fallire. Certamente, in questo caso, i fondi di distribuzione sono passati alla casa berlusconiana per questioni di mercato, ma Benigni poteva sicuramente scegliere dell’altro.
Sono lontani i tempi in cui si cantava allegramente all’osteria: “Quando penso a Berlusconi mi si sgonfiano…”. I polmoni, dicevamo. I polmoni del Piccolo Diavolo si sono rinfrescati da una forte corrente occidentale, West Cost Usa, California, Hollywood. Pinocchio è infatti costato, solo per la produzione, 45 milioni di euro, se a questo si aggiunge il budget di lancio, la cifra diventa un record assoluto per il film made in Italy. Non per nulla il New York Times ha parlato in proposito di”americanizzazione dell’Italia”. D’altronde, con un investimento del genere si deve far sì che tutti lo vedano. Le operazioni commerciali, connesse alle dichiarazioni (conciliazioni varie col Pluri-Presidente) del suo regista e protagonista, nonché tutto il battage pubblicitario e mediatico, pongono diverse domande che riguardano non solo il film in sé o il cinema, ma l’arte e la cultura tutte. Riguardano la politica.

Ma passiamo al film. Quanto detto prima sembra influire direttamente sulle scelte di regia.
Non si pretendeva un saggio sulla forza della metafora con la quale Collodi comunica e condanna tra le righe del suo capolavoro la situazione sociale e morale del tempo; ma magari una rilettura adeguata ai tempi nostri, del condizionamento sociale che ogni padre, scuola, tribunale (oggi si parlerebbe di altri condizionamenti) esercita su ognuno di noi per trasformarci in persone “normali” (e contro il quale, la follia pinocchiesca, rappresenta una spassosa utopia); quella l’avremmo attesa. In fondo stiamo parlando di Benigni, un regista che spiazza e punge e che qui sembra impaurito dal sistema proponendo un’immagine inedita di sé: snervante e isterica (vedi vocina stridula impostata per rendere il timbro infantile del personaggio).
Anche per quanto riguarda le ripercussioni sulla regia, l’idea è che Benigni, di fronte ad un oggetto tanto amato (il burattino) sia caduto nella facile trappola della venerazione. Prende il libro di Collodi non per leggerlo, fortunatamente, ma nemmeno per interpretarlo, semplicemente lo illustra.
Sembra che abbia paura di perdere il benessere conquistato, paura di dare un nome alle contraddizioni, ai conflitti di un paese che lui ama e che ha sempre reso partecipe nel suo cinema.
Sceglie invece di realizzare opere che usano un linguaggio tutto dentro al sistema scelto: fa cinema per il cinema. La realtà viene lasciata fuori e la percezione che stiamo attraversando un quadro difficile è assente.

Il pregio evidente del film, sottolineando l’importanza data all’immagine e all’illustrazione del romanzo, è che questo Pinocchio è la versione più fedele all’originale racconto che il cinema abbia mai proiettato. Lontanissimo dalla tenerezza disneyana e dalle atmosfere malinconiche di Comencini. Basti pensare a come la pellicola ci riporta alle origini storiche dell’Italia Umbertina, in una toscana mozzafiato.
Altro punto a favore l’interpretazione di Kim Rossi Stuart (fresco di teatro shakespiriano) nei panni del pirotecnico e nichilista Lucignolo.
Ma davvero non basta a essere soddisfatti di Roberto.

Benigni “traduce” il romanzo di Collodi **
di Federico e Francesco Servadio

Reduce dall’enorme successo de “La vita è bella”, Benigni si misura con un personaggio estremamente singolare, il Pinocchio di Carlo Lorenzini (alias Carlo Collodi). Molto fedele al libro ma con un occhio al cinema hollywoodiano (effetti speciali di avanguardia); il film offre allo spettatore un’ora e trequarti di autentico spasso, grazie a una bene assortita squadra di interpreti e a contributi tecnici di altissimo livello. Impegnato a replicare il grande favore di pubblico del film che lo ha reso giustamente famoso alla platea internazionale, il regista/attore procede senza troppi acuti, conferendo al personaggio i caratteri tradizionali del romanzo, tenendo un po’ a freno il suo debordante istrionismo. La recitazione del cast è classicamente teatrale e Benigni non rischia, dunque, affidandosi alle splendide scenografie di Danilo Donati (alla cui memoria il film è dedicato). Pur restandone distante, la mimica dell’attore toscano richiama alla mente il Pinocchio metafisico di “Totò a colori” (ma il “Principe della risata” resta insuperabile); mentre il Gatto e la Volpe danno l’opportunità ai sorprendenti Fichi d’India di esibire una gustosissima vis comica.
Prodotto ad alto costo, con un notevole dispendio di mezzi, il lavoro non impedisce a Benigni la riconferma di regista di serie A, consacrandolo tra gli autori italiani più apprezzati al mondo. Alcune scene, infatti, non si dimenticano: l’impiccagione del povero burattino, il processo davanti ai giudici divoratori di lecca-lecca e, naturalmente, il Paese dei Balocchi [img4]di Donati (la sequenza più bella del film, con la trasformazione dei bambini in ciuchi).
In attesa dell’uscita in America, prevista per il 25 dicembre prossimo, in Italia Pinocchio è già un record d’incassi. Sicuramente apprezzato dai tradizionalisti della fiaba, che non vedevano l’ora di sbarazzarsi del pur incantevole Pinocchio disneyano, il film verrà difficilmente compreso dai bambini, che rimpiangeranno a lungo il più “rassicurante” cartone.

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