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cultura dell'immagine e della parola

Incubatrici

I ricordi di cui voglio parlare appartengono all’Infanzia. Non so dire di preciso quando cominciarono le mie paure, so di certo che sono rimaste legate a un’immagine vitrea della mia memoria. A quel dannato cubo di cristallo intriso di disinfettante e gas al neon. Alla mia incubatrice.
A notte fonda, stritolato nella mia gabbia lucida, strabuzzavo gli occhietti piccoli come puntini delle “i”, oltre quelle superfici, e molto più in là vedevo deformi figure bianche scintillare e svolazzare nell’inchiostro nero intorno. Le tenebre della stanza, affollate di altri cubi inerti come il mio, in una lunga strada notturna, erano così vaste e profonde che comunicavano un illimitato senso di gelo.
È al buio che gli incubi cominciarono a prendere corpo.
Poi arrivò il giorno, zampettando piano. E il buio si fece palpabile. Se si sentivano rumori di passi e di seguito striduli gridolini di piacere, bisognava stare zitti e ascoltare. Ti stavano guardando con occhi di piovre. Entro poco ti avrebbero preso e portato via. Tante piccole ventose mulinavano sui cristalli, schioccando. Quello era l’unico momento che ringraziavi chissà chi di essere ridotto a una sardina in scatola, protetta da mostri che fuori si divincolavano e si appiccicavano al vetro.

Fantasie brulicanti di bambolotti taciturni, spesso di bambini solitari, difficili, quasi sempre “mostri” o, perlomeno, “creatori di mostri”. Dagli stessi anfratti immaginari emergono le creature infantili di Tim Burton in Morte melanconica del bambino ostrica dolce e oscura galleria piena di bambini-mostri, descritti, tuttavia, senza il ritmo originale tipico della tragedia. […]

Incubatrici, infermiere, carillon, casette con giardino, giocattoli e mostri. Bambini e sofferenza: è l’equazione di tanto cinema di Lynch o di Cronenberg. Dai loro camerini privati, spalancati su dimensioni parallele, labirinti sfuggiti alla ratio hanno cominciato a diramarsi in ragnatele multidimensionali. Falene inafferrabili.
Tutto arcano, tutto viscido e strisciante. Il dedalo della mente – con le sue viuzze, i vicoli ciechi, i bivi e gli eterni ritorni che spaesano ancor di più, – si è fatto autonomo architetto e stratega in una volta sola. Tracciando tunnel e passaggi segreti che giocano tra il visibile e l’invisibile, tra sogno e realtà, confondendoli, il “genio” ha imbevuto le sue strategie di poesia e crudeltà. Suonerà una dolcissima Tear Drop dei Massive Attack, ma organizzerà anche depistaggi e trappole spietate, – certo! – come Miles Davis in Ascensore per il patibolo.
Una volta ho aperto una botola cigolante lungo una strettoia imprevista, solo per curiosità, e così sono stato catapultato dentro una latrina straripante coccodrilli e mandrilli inferociti. Fortunatamente finirono per divorarsi tra loro e io continuai a darmela a gambe. Forse una via di scampo l’avrei trovata. Prima o poi. Ma il “poi” è il monocorde preferito di una fuga che riconduce dentro la solita pancia di vetro, lì accanto alla sferragliante sala parto.
Di nuovo, seduti davanti allo schermo in posizione fetale, si assiste agli spettacoli più impossibili. Ai sogni nostri e a quelli altrui. Senza tuttavia cercare di spiegarli, senza liquide tristezze di vita passata, divaricando gli otturatori sensoriali a tutto campo, e basta. Come solo si può fare con certo cinema. Rivedere uno stesso film più volte. Rivedere Mulholland Drive, una, due, tre volte. E tutto ciò in un’atmosfera placida, musicata da un oscuro Angelo Badalamenti che anni prima calava sulle immaginarie Twin Peaks del Nord America come zucchero a velo sulla marmitta bollente di una strega.
Infanzie scoperte sul terrore e la violenza vicinissimi alla camera da letto, infanzia che una ragazza inquieta e inquietante, tale Laura Palmer, immersa nell’incubatrice di un diario, ricopre abilmente con personaggi lugubri e invadenti, inventati ma sufficientemente vaporosi e ingombranti da nascondere le sue paure vere.
Giochi innocenti di bambini lasciati a crescere soli, brutalmente, su un’isola splendida, degna di un villaggio Alpitour. Accade ne Il Signore delle mosche e i bambini, piccolissimi, di notte si rincorrono a decifrare rumori misteriosi deformando tutto in figure bestiali, sfuggenti e rumorose che di notte formicolano nei boschi in cerca di carne.

«… Il mio papà dice che ci sono delle cose, come si chiamano quelle cose che fanno l’inchiostro… seppie? … che sono lunghe centinaia di metri e mangiano le balene intere.» Si fermò di nuovo e rise allegramente. «Io alla bestia non ci credo, naturalmente. Come dice Piggy, la vita è scientifica, ma noi che cosa ne sappiamo? Voglio dire come facciamo a essere sicuri?…»

(Lord of the flies, William Golding)

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