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Le due facce di Bellocchio

Le due facce di Bellocchio

L’angelo caduto
di Francesca Arceri

L’ora di religione si pone come un monte appuntito del quale esistono solo due versanti che impongono posizioni nette e antitetiche: o si ama o lascia del tutto indifferenti e perplessi. Non esiste una via di mezzo.
Si può affermare che la critica abbia perso la testa per questo film, sono stati spesi chilometri di elogi, spesso pretesti per ricamarci l’ennesima filippica contro la Chiesa e la mercificazione massmediatica. La domanda che invece ci siamo posti dopo la visione e queste letture è: c’era davvero bisogno di una pellicola del genere? E’ impossibile non riconoscere un alto grado qualitativo nella sua fattura: Bellocchio resta un regista esperto e ben supportato dalla fotografia di Pasquale Mari e dalla recitazione di Castellitto. Ma è davvero lo specchio della società del momento? Se consideriamo il film come un’opera sull’ipocrisia e sulla coerenza potremmo rispondere di sì, alla lontana, ma la sceneggiatura è vertiginosamente sbilanciata e attratta dalla contestazione del mondo ecclesiastico. Contestazione che sa di anacronismo, però se consideriamo soprattutto il fenomeno della santificazione di massa ci troviamo daccordo e riconosciamo la denunicia di un’attualità così preoccupante. Allora che cosa non convince, cosa lascia perplessi e distanti da questo lavoro? Bellocchio scrive e racconta ancora con tutti e due i piedi negli anni settanta, sembra di vedere la Roma di Fellini epurata dal quell’ironia grottesca che lo inchiodava a quegli anni ma che assicurava un’identita precisa che qui sembra mancare in un eccesso di artificiosità e di intellettualismo algido. Questa Ecclesia risulta rigidamente caratterizzata da connotati irrelisticamente negativi: per quanto ci si trovi sulle stesse posizioni laiche di partenza del regista non si riesce a condividere questa visione. La sceneggiatura viene forzata a dimostrare delle tesi a priori che irrigidiscono azione e personaggi creando dei vistosi strappi nel tessuto narrativo da rendere l’intero impianto involontariamente comico. Uno su tutti l’incontro del protagonista con la zia (fra l’altro interpretata da Piera degli Esposti) che si diffonde in un discorso che pare il manifesto programmatico dell’ipocrita. L’atmosfera sospesa, onirica si infrange insomma su alcune cadute imperdonabili che rendono pericolante la credibilità dell’intero film.
Altri si sono soffermati sull’aspetto psicanalitico sottolineandone la centralità (per la lavorazione Bellocchio si è avvalso della collaborazione di uno psicanalista) in tutta la durata della pellicola, personalmente riconosco questa forte matrice ma mi chiedo se abbia raggiunto il suo scopo un film che per essere capito deve essere affiancato dalla lettura dell’opera omnia di Lacan.

Professor Marco Bellocchio. In ginocchio. ****
di Michele Vaccari

E’ il manifesto del cinema indipendente italiano. Marco Bellocchio è il principe livido di questa metafora-favola sul rapporto tra il potere temporale moderno esercitato dal clero sulle menti opportunistiche della massa mediatica che ci circonda strettamente. “L’ora di religione” non è solo la sintesi del pensiero di un uomo ormai giunto alla soglia dei settanta con trent’anni di cinema di denuncia sociale alle spalle. “L’ora di religione” è soprattutto una diapositiva limpida della società italiana, prevaricata dalle formalità e dagli usi e costumi imposti dal Vaticano e dai suoi sicari ormai da secoli. L’anticlericalismo non diventa mai blasfemo o banalmente denigratorio nei confronti di Dio. L’anticlericalismo diventa il mezzo con cui mostrare come la nostra religione sia più un’idea, un’ossessione, un rito voodoo che ha per fantoccio Cristo piuttosto che un reale credo a cui votarsi. L’idea di base del film è talmente originale da passare in secondo piano rispetto alle riflessioni che fa scaturire una sua attenta analisi. Sergio Castellitto è un pittore affermato. Ateo convinto, riceve la visita di un pretucolo lacchè del Papa che gli comunica la prossima santificazione della madre, trucidata da uno dei cinque fratelli dell’uomo, malato di mente, in preda a una delle solite crisi di cui soffre a causa della malattia. La cosa più geniale e assurda è che la reazione, in Sergio Castellitto, non è quella del classico personaggio da commedia per famiglie 20,30 su Rai Uno, ma è la reazione di un uomo consapevole di ciò che era sua madre. Una stupida, sì, proprio una stupida, bigotta come la lobby che la vuole santificare, meschina nella sua ignorante ostinazione a voler convincere il figlio schizofrenico a non bestemmiare, senza tentare minimamente di spiegare l’errore che sta nell’imprecazione contro il Padre Eterno. No, non giustifica mai il fratello per il gesto. Non si permette di dare giudizi su di lui, né tanto meno di capirlo. Ma è l’unico a stargli vicino. In mezzo a una schiera di arrivisti, atleti nella maratona del potere, che sudano cianuro e avidità da tutti i pori, capitanati dalla moglie, fintamente ingenua che arriva addirittura a battezzare lei personalmente il figlio attratto da un Dio che per il padre non esiste, seguita da fratelli e da zie, parenti serpenti, da una vita contro la Chiesa e ora improvvisamente convertitisi per interesse, lui è l’unico a lanciare il suo urlo di sfida, il vero antieroe, andando contro un’istituzione così sacra. E’ l’urlo di una persona, non di una tessera del domino classista. Una persona che ha capito come funzionano le cose. Uno che intuisce che è tutto un complotto, che a nessuno interessa di sua madre, che, alla fin fine, si prega stringendo un libretto d’assegni tra le mani più che un rosario. Sarebbe da folli rinunciare a quell’improvviso riconoscimento pubblico: un’imperdibile via di fuga dal fallimento costante in cui si affoga. E’ come se per tutti quelli che gli stanno attorno, che cercano di convincerlo della presunta santità della genitrice, avere un parente stretto che viene fatto santo è come averne uno che ha vinto il Grande Fratello. L’acida satira e il pesante cinismo, tipico delle produzioni di Bellocchio, esce anche in questa violenta critica al pilastro per eccellenza della nostra società postindustriale, residuato contadino di superstizioni e onori sempre sbandierati per il mondo, fino a diventarne zimbelli: la famiglia; un attacco senza tregua, iniziato trentaquattro anni fa con “ I pugni in tasca”, destinato a evolversi con “Nel nome del padre”, fino a diventare uno dei cardini della cinematografia di questo fondamentale regista, cresciuto nell’oppressione della famiglia, della sua città, Bobbio, e degli insegnamenti dei gesuiti. Per tutti, “avere una santa in casa” significa, soldi, successo, un futuro a posto e, frase che ripetono tutti all’interno del film, ”poi, è un’assicurazione sulla vita. Che non lo sai mica cosa c’è dopo. Nel dubbio. È da scemi non approfittare, non credi?”. E lui si prende gli insulti, per quel sorriso sardonico, che aveva anche sua madre, quel sorriso di “chi crede di saperla più degli altri. Ma chissà cosa cazzo c’avrai da ridere?” Quando i suoi ”cari” fanno questi discorsi è tale il suo malessere verso tutto quel mare d’ipocrisia in cui è costretto a ristagnare che non può rinunciare a una boccata di ossigeno ogni tanto. Non può, cioè, fare a meno di lasciarsi andare a un sorrisetto diabolicamente consapevole.
Basta non dirò altro. Il film è un capolavoro. E’ la nuova strada di cui si parlava ai tempi di “Brucio nel vento” con la fondamentale differenza di non scadere mai negli intellettualismi forzati e negli stereotipi dell’alta letteratura. Sì, forse è un film per le masse che vogliono pensare, con attori non molto bravi, a parte Sergio Castellitto, con interni non troppo curati, senza grandi effetti speciali, luci sporche, tormentoni cari al regista, ma ormai passati di moda, una pellicola fatta di idee forti, di musica perfetta e di immagini oniricamente ironiche, che tende a privilegiare il concetto sul particolare tecnico. Nessuno dà soldi a Bellocchio per fare i suoi film. Pur di tagliargli le gambe, glielo censurano manco fosse un film porno a causa (causa?) di due bestemmie dette tra uno sfogo di lacrime, peraltro momento magico del film per la scena e l’emozione che crea, l’abbraccio di un fratello che cerca di capire come va il suo mondo.
Ora andate a vederlo e poi sappiatemi dire com’è la scena della modella, che fa la parte della madre, ingaggiata per le foto dei santini mentre parla al cellulare e si pulisce il sangue dal vestito come fosse rossetto sbavato.

Note: unico film italiano presente in concorso al Festival di Cannes

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