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L’odore è sempre quello di una volta

L’odore è sempre quello di una volta

Le tinte sono opache, la luce è un inganno: questo film non può essere illuminato. E’ un chiaro-scuro, come la vicenda; è un miscuglio di immagini che vorrebbero essere un candido bianco e nero, ed invece non sono che un colore sporco che nasconde il segreto di un orrore.
Grbavica è un quartiere di Sarajevo: per chi ci gira intorno non c’è l’idea di un luogo, Grbavica è un residuo urbano, con palazzi scheletrici, corvi e nuvole cupe: appare come un luogo che nasconde qualcosa, un mistero pronto a dissotterrarsi dall’inutile neve che lo ricopre.
Il segreto di Esma è soprattutto il luogo dove vive. Questa donna è la sineddoche di una nazione che ancora non ha dimenticato e vive sulla sua pelle (la città che nasconde ancora i cadaveri non recuperati come la schiena di Esma trafitta di cicatrici) l’orrore dell’assenza del significato di vita. Lo stupro, come bene è spiegato dalla regista, in questa sua opera prima coraggiosa, dolente ma mai esageratamente esasperata, è infatti l’epicedio del significato di nascita.

La Bosnia è una nazione emersa dal 1992, dopo il lungo conflitto etnico che l’ha vista tristemente protagonista. Sara è una ragazzina che ha la stessa età, frutto non rinnegato di uno stupro subito da Esma in un campo profughi. In entrambi i casi la nascita è legata alla violenza, un atto che richiede una memoria da cancellare.
Si diceva prima che il segreto di Esma è soprattutto il luogo dove vive la madre, ma si può essere ancora più precisi. E’ quel segreto vivente di Esma, è il corpo della figlia che accoglie il senso del paesaggio. Non è un caso che quando la ragazzina scopre la verità, decida di radersi i capelli, facendosi spoglia proprio come la periferia in cui vive.

La verità è un crimine che si consuma paradossalmente, proprio come il volto dolce di una ragazzina dagli occhi accesi che deve mutilarsi. Il film di Jasmila Zbanic è un’opera che cerca volutamente la sottrazione, nei tempi, nei movimenti, nei contrasti, nella fatica delle sue figure.
Le guerre si portano via sempre tutto, è normale: guardare una ragazza giocare con una pistola e divertirsi tra le macerie fa un po’ Germania anno zero (Roberto Rossellini, 1947) e un po’ Elephant (Gus Van Sant, 2003) ma quando vediamo questa scena nel film, quando vediamo che Sara punta dritta la pistola sulla madre così ammirevole capisci che questa guerra non porta solamente via tutto, ma si trascina una rabbia instancabile e una follia incomprensibile. Capisci che ha davvero ragione Esma, l’odore è sempre quello di una volta e che le geografie dell’odio permangono anche se si creano nuove nazioni. Forse è solo un problema di (ri)educazione, eppure in questa Sarajevo post-bellica la ricostruzione (della verità, della dignità, della comprensione) è davvero difficile. D’altronde questo è il grande martirio delle nazioni/madri stuprate.

Sarajevo ljubavi moja
C’è un momento in cui tutte le donne del centro di assistenza intonano un canto. Si chiama Sarajevo amore mio . E’ un momento toccante, una carrellata di volti, di rughe: la musica è effettivamente nell’aria, ma noi la sentiamo attraverso quegli occhi. È una grande maestria tanto poetica quanto registica, un momento di nostalgia che unisce, un lungo attimo d’umanità pura.

Curiosità
Il film ha vinto l’Orso d’oro all’ultimo festival di Berlino ed è il primo lungometraggio di Jasmila Zbanic

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