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Metti un danese a Los Angeles

Metti un danese a Los Angeles

Nicolas Winding Refn ormai ci ha abituato a dei piccoli capolavori. L’ha fatto quando ancora si muoveva nel sottobosco produttivo di Copenaghen con la sua trilogia di Pusher, grondante di estetica punk e violenza estrema da bronx danese. L’ha dimostrato non di meno nella sua “terra di mezzo”, con quel Bronson che è stato a tutti gli effetti il suo trampolino di lancio per il cinema mainstream, compromesso cercato ed ottenuto fra deflagrazioni di cinema pulp e ricerca produttiva. Ed era facile già da allora intuire che il “vascello vichingo” targato Refn prima o poi avrebbe solcato l’oceano per approdare definitivamente in una produzione deliberatamente hollywoodiana, la più costosa ed ambiziosa della sua carriera. Ma guai a considerare Drive, già premiato allo scorso Cannes per la miglior regia, un semplice disimpegno autoriale dove Refn assume il ruolo di un semplice e bravo mestierante. Anzi, questo film è forse il suo lavoro più diabolicamente intriso delle tante caratteristiche che lo hanno contraddistinto in questi anni.

Drive, diciamo fin dall’inizio, è un film perfetto. Nonostante l’embrione narrativo (il libro omonimo di James Sallis) abbastanza convenzionale, Refn dimostra tutta la sua visionarietà registica trasformando il plot in un progetto unico e stratificato (action movie, revenge movie, vintage movie), contaminandolo soprattutto con una ridefinizione geniale degli spazi (l’automobile su tutti), spezzando volutamente la linearità della storia e riconducendo in un solo universo filmico molti dei suoi riferimenti passati (in Drive c’è sia il Refn di Pusher, sia quello di Valhalla Rising e non di meno quello di Bleeder). E’ in particolare il protagonista interpretato da Ryan Gosling che diventa il crocevia dell’estetica refniana, vero “motore” dell’intero film, personaggio dalla “glacialità esplosiva” che affascina fin dai primi minuti di visione e che “guida” (è proprio il caso di dirlo) lo spettatore in un noir che si intreccia in una storia d’amore e si risolve come un revenge movie. Inutile qui insistere nella cura millimetrica e maniacale di Refn nelle inquadrature e nei movimenti di macchina, ma è invece interessante segnalare che in Drive Refn, gioca per “riduzione” rispetto ai lavori passati, muovendosi un impianto registico maggiormente classico e statico, eppure assolutamente innovativo anche nei suoi aspetti forse più ridondanti (il frequente uso dei flashback è da antologia del cinema ed eppure è ciò che noi ci aspettiamo sempre di vedere in quel preciso momento del film). L’altro aspetto davvero notevole è la capacità di ri-contestualizzazione. Qui Refn ci apre la porta del tempo e ci fa precipitare in una incredibile atmosfera anni Ottante: nelle musiche (la colonna sonora elettronica di Cliff Martinez sintetizza ancora di più il passaggio fra uomo e motore, fra organico ed inorganico), negli ambienti, nello stesso abbigliamento dei protagonisti e perfino nei piccoli dettagli come i font “bubble-gum” dei titoli di testa. Dall’altra parte è la stessa caratterizzazione del personaggio di Gosling ad assumere l’etica e l’estetica dell’eroe “new wave” (l’Eastwood anni Ottanta ha fatto scuola), alimentando ancora di più un tentativo reinserire nella post-modernità elementi decisamente vintage.

E qui qualcuno potrebbe anche avvertire riferimenti tarantiniani in Drive (magari ricordando Death Proof); ma la straordinarietà di Refn è anche quella di conferire alle immagini quella profondità e quell’ipnosi che Tarantino non potrebbe mai concepire. Tarantino è una locomotiva che travolge tutto e tutti senza fermarsi, un unico respiro lungo un intero film, con la sua forza iconoclastica e verbale. Lo stile di Refn assomiglia invece più a un’automobile da corsa (e non a caso questo film è forse la metafora più sincera del suo cinema): capace di accelerazioni improvvise e sanguinolente ma anche a lunghe soste a fari spenti nell’oscurità, aspettando la prossima ripartenza con lunghi silenzi espressivi, onirici limbi sospesi nella dolcezza di un bacio (la scena dell’ascensore è già un cult) o interminabili primi piani sul volto di Gosling che Refn ci costringe a fissare fino a che non vediamo i suoi occhi chiudersi. Tutto questo deriva un sapiente uso della macchina da presa che si distacca dalle icone tarantiniane ma che affonda le radici nella vera essenza della messa in scena. E’ in definitiva la miglior tradizione del cinema europeo che invade Hollywood, e non l’inverso. Ed è un cinema, quello di Nicolas Winding Refn, di cui sentiremo ancora parlare a lungo in futuro. Forse fin dalla prossima notte dei premi Oscar.

Curiosità
Uno dei registi più influenti per Refn è a suo dire l’italiano Jacopetti, fra l’altro recentemente scomparso. Dice Refn di lui: “è sicuramente una delle maggiori influenze della mia vita, anche per il modo in cui usa la musica. Sono un enorme, avido collezionista del suo lavoro.”

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