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Dopo il mostro di Frankestein, ecco Vera

Dopo il mostro di Frankestein, ecco Vera

Dopo la commedia pop e il melodramma post-moderno, il premio Oscar Pedro Almodóvar arriva nelle sale italiane con La piel que habito, film già in concorso nell’ultima edizione del Festival di Cannes. Un thriller in cui le ossessioni e il registro stilistico del cineasta iberico sembrano quasi ridimensionati: la contrapposizione cromatica ricercata all’interno di ogni singola inquadratura (verde-rosso-blu) sembrerebbe meno esasperata, la sessualità è mostrata attraverso una prospettiva scientifica ed asettica, il voyeurismo sempre mediato e i riferimenti al teatro d’avanguardia e a quello dell’assurdo meno ossessivi.

Le piel que habito, libero adattamento del romanzo Tarantola di Thierry Jonquet, mostra la transizione sessuale non come esplicito volere dell’interessato, bensì come vendetta permanente da parte del freddo chirurgo Robert Ledgard: la volontà di privare qualcuno del proprio contenitore, dell’organo più esteso del corpo umano, mediazione tra il proprio interno e l’esterno, della superficie sensoriale più lunga dell’intero organismo per modellarla a proprio gusto, come una specie di dottor Frankestein che crea la propria creatura, è mostrata in maniera assolutamente asettica, come se il punto di vista della macchina da presa fosse quello delle lampade scialitiche utilizzate in sala operatoria (spesso, ad esempio, è infatti inclinata con l’asse ottico che guarda verso il basso e perpendicolarmente rispetto al suolo).

Il voyeurismo (tema ricorrente nel cinema di Almodóvar) è mediato dalle immagini trasmesse dalle telecamere che consentono a Ledgard un’osservazione costante su Vera, quasi da reality show: il rapporto tra la figura di Ledgard e il volto in bianco e nero della donna ingigantito attraverso lo zoom che schiaccia la figura dello scienziato è innanzitutto preludio del finale della pellicola ma al contempo auto-referenzialismo della condizione spettatoriale al cinema in quanto emblema del rapporto tra il primissimo piano sullo schermo e lo spettatore in sala. La scelta del cineasta di utilizzare in questa pellicola uno stile «sobrio e austero, esente da una forte retorica visuale», quasi distaccato rispetto ai precedenti lungometraggi, segnala la capacità di Almodóvar di saper essere non sempre uguale a se stesso.

Curiosità
A riguardo di La pelle che abito, Almodóvar ha dichiarato: “Ai transessuali non raccomando di vedere questo film, perché la transessualità è utilizzata come sofisticata forma di vendetta”.

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