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cultura dell'immagine e della parola

Parole di libertà

Parole di libertà

Morbido, denso, caldo. Caramel è un film di percezioni che racconta le ombre, gli spigoli, le curve sinuose della femminilità. Le donne in Caramel sono punti di vista, esperienze, esistenze che si intrecciano nel tessuto urbano di Beirut, città in fase di mutazione, che cambia e difficilmente si fa cambiare, che ospita e condiziona. Palcoscenico delle contraddizioni sociali, più o meno marcate e invadenti, Beirut guarda le sue protagoniste attraverso lo spioncino della porta di un centro di bellezza, dove le donne si incontrano, si guardano negli occhi ma guardando nella stessa direzione. Si ascoltano, si raccontano, condividono momenti di vita, attimi fugaci di presenza. Un film di sguardi, di pensieri sfocati, di sogni, desideri e sentimenti.

Un’esperienza sensoriale nella quale lo spettatore è costretto a mettere in campo tutte le proprie abilità percettive per cogliere la genuinità di un film che vuole raccontare anche la genuinità dell’essere donna. Perché si assaporano, ma difficilmente si distinguono, i sapori di una cultura mescolata e mescolante, nella quale le donne hanno un ruolo indefinibile e, forse, irraggiungibile.
Si accarezza la pelle vellutata sui corpi di Layale, Nisrine, Rima, Jamale e Rose, ognuna dentro la sua storia che intreccia altre storie. Si ammirano i colori accesi delle case, dei corpi e delle strade soleggiate. Si sentono i profumi, gli odori, le essenze di un luogo che non è più un solo luogo e, infine, si ascolta. Non le parole ma la musica. Le parole hanno altri significati, i racconti avvengono per immagini, suggestioni, improvvisazioni sonore. La musica, il ritmo della vita, la sinfonia creata intorno alle storie delle cinque protagoniste è ciò da cui prende spunto la costruzione magmatica del film. Che, appunto, come dice il titolo del film, ricorda qualcosa di dolce, che spesso, nei dolci fa la differenza.

Nella vita delle cinque protagoniste, e di conseguenza nel film di Nadine Labaki, esordiente, nonché sceneggiatrice e attrice, la differenza la fanno le immagini. Sia quelle impresse negli schermi percettivi dello spettatore, sia quelle create, disegnate, deformate e plastificate. Un tocco di magia che permette di trasformare una banale telefonata in poesia cinematografica. Un tocco leggero che fa sorridere con delicatezza e un pizzico di nostalgia. Un film di intimità e libertà.

Curiosità
Ha detto Nadine Labaki: «Non volevo fare un lavoro sociologico e certamente non ho riassunto tutta la società libanese. Ho fatto questo film perché mi pongo sempre le domande sulle donne libanesi. Ossessionate dal loro aspetto, cercano la loro identità fra l’immagine delle donne occidentali e quella delle donne orientali… La donna libanese vive perennemente come se stesse rubando gli attimi di felicità. Deve usare tutti i generi di stratagemmi per poter fare ciò che desidera e quando ci riesce, si sente colpevole. Pensare che siano libere è un errore.
Personalmente, anche se sono una donna emancipata che fa il lavoro che desidera, che fa ciò che vuole, nell’intimo sono ancora profondamente condizionata dalle tradizioni, dall’educazione e dalla religione.
Le giovani libanesi crescono con la parola araba “aayib„ che, accompagnata da un gesto poco ortodosso vuol dire, “svergognata” e tutto può essere “vergognoso”. Siamo continuamente intimorite da fare qualcosa che non dovremmo fare e con l’idea fissa di doverci sacrificare per i nostri genitori, bambini, marito e famiglia. In ogni momento delle nostre vite, abbiamo un esempio da seguire che, naturalmente, non corrisponde a ciò che desideriamo per noi.
La donna libanese, che sia musulmana o cristiana, vive una contraddizione fra che cosa è, che cosa desidera essere e cosa le è permesso essere».

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