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Brand New Hero in American Gangster

Brand New Hero in American Gangster

Ci mancava solo un altro film sulla mafia negli anni Settanta. In American Gangster ci sono un piccolo delinquente che dal nulla diventa un boss e un poliziotto troppo onesto (e quindi malvisto dai propri compagni) che si dividono le mazzette. Una storia vista e stravista, e il fatto che sia tratto da una vicenda realmente accaduta sembra aggiungere il danno alla beffa. Eppure American Gangster è un film riuscito.
Ridley Scott ci ha abituati ad alti e bassi, azzeccando grandi capolavori (Blade Runner – id., 1982 -, Alien – id., 1979) così come grandi cantonate (Un’ottima annata – A Good Year, 2006). Comunque la si pensi su di lui, però, non si può certo negare che il cinema lo conosca e lo sappia fare. Con quest’ultima pellicola, così come nel sottovalutato Le crociate (Kingdom of Heaven, 2005), ha dato il meglio della sua recente produzione, usando sceneggiature scritte da altri che raccontano il passato per capire il presente. In Le crociate si parla della guerra santa di ieri come metafora del conflitto che continua ancora oggi.

In American Gangster succede la stessa cosa e in maniera ancora più palese. Scott riutilizza i grandi film di mafia del cinema moderno, citando a mani basse da Scorsese, De Palma, Hawks, Spike Lee, per creare qualcosa di nuovo. Non si pensi a un’opera pop in stile Tarantino, tutt’altro. American Gangster è un film classico e lineare che ripropone ambientazioni, colori, atteggiamenti e atmosfere familiari al grande pubblico, ma per raccontare la storia della fondazione del capitalismo globalizzato. Frank Lukas (Denzel Washington), infatti, crea il suo impero seguendo le regole della grande distribuzione che in Usa, già fin dalla fine degli anni Sessanta, aveva creato le prime catene di vendita al dettaglio. Lukas taglia fuori tutti gli intermediari, riuscendo a vendere merce migliore e a prezzi inferiori. Per accertarne la qualità crea anche un marchio per la sua eroina, e sfrutta la guerra in Vietnam per trafficarla e trasportarla.

Ed è così che in breve tempo un afroamericano diviene il capo delle cosche mafiose della New York dei primi anni Settanta. L’FBI non ci capisce nulla. I poliziotti che indagano sono a loro volta più mafiosi e organizzati dei delinquenti. Solo il superpoliziotto Richie Roberts (Russel Crowe) riuscirà a comprendere cosa sta succedendo cominciando a pensare fuori dagli schemi: per capire chi comanda bisogna seguire la merce. Le regole del mercato sono chiare e l’eroina è una merce né più né meno che il latte. La sua compravendita segue le stesse regole, e la sua bontà dipende dagli stessi fattori. E quando il poliziotto fa di tutto per aprire le bare dei caduti in Vietnam, certo che quello sia il mezzo di trasporto per la droga, non può non venire alla mente la guerra in Iraq, per la quale l’esercito ha vietato categoricamente di riprendere le bare che vengono riportate in patria. Scott non solo ci mostra le bare, ma ne fa l’icona dell’utilità della guerra asservita al potere economico. American Gangster mostra la nascita di un impero economico, prima che malavitoso, e il suo limite è quello di farlo a carte fin troppo scoperte.

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