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La fuga di Martha: Death is «Pure Love»

La fuga di Martha locandina

Il titolo originale del film di SeanDurkin è Marta Marcy May Marlene: tre nomi che si susseguono l’un dietro l’altro, rapidi sino a divenire sfuggenti, sino a fondersi in un’unica parola indefinita,  un’unica personalità indefinita quale, appunto, quella della giovane protagonista. Nata come Martha, ribattezzata come Marcy May da Patrick, leader carismatico di una setta pseudo hippie, diventata Marlene per coloro che alla setta non appartengono, nome di comodo per celare la nuova identità acquisita.

Fugge Martha. Fugge da questa comunità immersa nel verde, microcosmo apparentemente tornato alla vita semplice dell’umanità primigenia, per trovare rifugio presso sua sorella Lucy, dentro le mura di una casa “normale”. Ma così come la piccola comunità da cui è scappata si era rivelata selvaggia, feroce e materialista, allo stesso tempo le mura della casa di Lucy si rivelano essere una nuova prigione, dove Martha rimane in balia delle sue paranoie e dei suoi fantasmi.

Pur essendo la setta (religiosa o meno) il soggetto di molte storie horror e pur avendo la piccola comune di Patrick più di una terribile similitudine con quella di Charles Manson (a cominciare dalla forte personalità carismatica dei due leader), ciò che rende il film di Sean Durkin realmente inquietante non sono le nefandezze compiute dalla setta, bensì proprio la vita di Martha al di fuori di questa. Gli occhi di Elisabeth Olsen, il suo volto freddo e privo di emozioni, non sono altro che una fragile maschera che nasconde un’anima ormai perduta, priva di qualsiasi punto di riferimento a cui aggrapparsi. Martha, infatti, cambiando il suo nome in Marcy May, ha perso la sua identità originaria per un’identità fittizia e vuota («she’s just a picture», canta Patrick rivolgendosi a lei), di cui crede di privarsi fuggendo dalla setta. Tornare da sua sorella Lucy significa credere di potersi ritrovare, di poter ritrovare la sua vera essenza; ma lei è ora Marlene, un nome che non si riferisce a nessuna identità, un nome che non si riferisce a nulla. Un nome vuoto.

La dialettica tra concetti quali vuoto e pieno, ampio e stretto, luminoso e oscuro domina le inquadrature di questo film e rispecchia le personalità dei personaggi. La fattoria di Patrick, esternamente grande, luminosa, accogliente, aperta, internamente è caratterizzata da ambienti piccoli e angusti, mal illuminati, asfissianti. Al contrario, la casa di Lucy, bella, luminosa, dalle ampie stanze, sembra immersa in un luogo sperduto, delimitato dal lago e dalla foresta, dove la presenza umana sembra quasi del tutto assente; la fortezza ideale per la “setta immaginaria” di Martha.

Su questi spazi, su questi sguardi, spesso la macchina da presa indugia, concedendosi un ritmo volutamente lento, uno sguardo attento e silenzioso, che contrasta in modo quasi stridente con la follia che sempre più si scatena nella mente della ragazza. È uno sguardo che nega una qualunque apertura o via di fuga, che non si sofferma sugli altri esseri umani, in cui sembra risuonare l’eco delle parole di Patrick: la morte è il vero amore.

Curiosità: il film ha vinto il premio per la Miglior Regia durante il Sundance Film Festival 2011 ed è stato presentato al Noir in festival di Courmayeur.

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