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Quella casa nel bosco: The Reality Horror Picture Show

The Reality Horror Picture Show

“Vieni, c’è una strada nel bosco / il suo nome conosco / vuoi conoscerlo tu?”. Se c’è qualcosa più abusato dei cliché horror – pigro adagiarsi su archetipi buoni per ogni stagione o crisi del genere per consunzione/evoluzione/ibridazione in qualcos’altro? – è l’uso del termine ‘operazione’. Oggi non si fanno film, ma operazioni; non storie, ma concept; tutto è meta-qualcosa: cosa, poi si vedrà. Con questa premessa, rivolta più a chi di cinema ne parla (la critica) che a chi lo fa, approcciamo Quella casa nel bosco, esordio alla regia di Drew Goddard (sceneggiatore di Cloverfield) che ha ideato lo script con Joss Whedon, autore di serie tv cult e nelle sale anche con l’attesissimo The Avengers.

La pellicola, la cui gestazione inizia due anni fa, ha rischiato di essere abortita per via dei problemi finanziari della MGM e solo l’acquisto dei diritti da parte di LionsGate ha permesso che vedesse la luce e arrivasse in sala. A detta degli autori e della stampa Usa che ne ha tessuto le lodi, “un’operazione che mira a rivitalizzare l’horror e le sue derive torture-porn”, riflessione (ecco il meta-) e svelamento dei meccanismi, narrativi e non, in un campionario di un’ora e mezza. È davvero così? La regola per parlare di Quella casa nel bosco è non parlare della storia, evitando spoiler e descrizioni – date un’occhiata in giro – che soffrono dell’ansia di spiegare tutto e tolgono il gusto della sorpresa che detona dopo venti minuti di set-up classico. Lo script spedisce la combriccola (cinque ragazzi, ognuno impersona volutamente uno stereotipo: la ‘vergine’, il palestrato, la biondona, lo studioso, il fool) in uno sperduto casolare dove l’orrore che non tarderà a manifestarsi si sviluppa su due piani narrativi: la fuga dalla casa e, sull’altro, il laboratorio coi ‘registi’ del massacro che, tra boutade e humour nero, adempiono a un disegno che richiama miti ancestrali. Un po’ Truman Show (tutto è seguito live, etero-diretto da burattinai maldestri), un po’ citazionista, in modo intelligente, di classici quali La casa e Non aprite quella porta: la pellicola gioca coi topoi dello slasher (perché i protagonisti sono stupidi? Perché fanno sempre la cosa sbagliata?) e, col montare della tensione, chiama a raccolta una sarabanda di mostri e maschere care agli aficionados per il grand-guignol finale. Quella casa nel bosco è, sì discorso meta-filmico, ma soprattutto cortocircuito di un genere che, come nell’apocalittico finale, si avvolge su se stesso e chiede il re-boot. Uno dei personaggi, infatti, si trova a chiosare: “C’è bisogno di un cambio”.

Pur tra dialoghi non sempre brillanti e una volontà di de-costruire le regole del gioco che, alla lunga, mostra la corda (nonostante sangue e teste che rotolano il tono è leggero), il tutto è preciso e pettinato come si deve: la fotografia, per dire, è di Peter Deming, sodale di Lynch. Gli appassionati respireranno una ventata d’aria nuova e i profani potrebbero trovarlo pure divertente. Ma resta il dubbio: se di ‘operazione’ di analisi/critica si tratta, dov’è la pars construens? Tolti rimandi smaliziati, prese in giro degli stereotipi del terrore e i riferimenti, fini a se stessi, a Lovecraft e alla cosmogonia degli Antichi, non rimane molto e chi grida al capolavoro dovrebbe giudicare non facendosi condizionare dal package (le firme degli autori sono un richiamo per i fan della lunga serialità che vede appiattirsi certo cinema al modello tv, scimmiottandolo) e da proclami di rinascita del genere proprio grazie a Quella casetta nel bosco, come al tempo accadde con Scream. Ma qui la colpa non è di Goddard & Whedon, che confezionano un prodotto onesto e meritevole di una visione, ma di chi grida che un altro horror è già nato. Se quello è meta-cinema, allora la nostra, in fondo, è meta-critica: no?

Curiosità
In una scena, uno dei protagonisti, dopo aver pronunciato il “Restiamo uniti!” di rito, sotto l’effetto di un gas che manipola rapidamente l’umore dei residenti nella casa, cambia idea e spiega, in una battuta, il motivo per cui, negli horror, i personaggi sistematicamente si dividano per poi andare solo incontro alla morte: “No, non va bene. Dovremmo dividerci: così lavoreremo più rapidamente…”.

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