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Diaz – Non lavate questo sangue: La generazione ferita

La generazione ferita

“La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della II guerra mondiale”. E’ con questo commento di Amnesty International che il film di Vicari precede i titoli di coda. Noi, che abbiamo avuto la fortuna di aver assistito alla sua anteprima alla Berlinale (dove si è portato a casa il premio del pubblico), a fine proiezione siamo stati investiti da una duplice sensazione, quasi contraddittoria: prima abbiamo provato vergogna di appartenere a un paese che è stato l’artefice di quella terribile “sospensione dei diritti democratici”. Ma subito dopo, quasi con uno scatto d’orgoglio, ci siamo anche sentiti appartenenti a un cinema nazionale che finalmente è stato capace di raccontare quella vicenda nel miglior modo possibile. Una vicenda che in più di dieci anni non è mai stata sviscerata completamente, trincerata com’era fra gli steccati ideologici e politici, fra la retorica delle vittime e l’indifferenza dei carnefici, fra gli slogan degli attivisti e la diplomazia delle istituzioni. Questo film invece quella trincea la scavalca completamente, decidendo di filtrare la storia della Scuola Diaz attraverso l’intreccio di tante piccole storie (il giornalista, l’attivista, il black block, il poliziotto) e restituendo una visione virtuale più reale di tanti documentari o inchieste su quella che Michelangelo Fournier, vicequestore aggiunto in quei giorni a Genova, etichettò come una “macelleria messicana”. Tanto che perfino chi è era già a conoscenza di ogni minimo dettaglio di quell’irruzione delle forze dell’ordine nella Scuola Diaz (e dei successivi interrogatori alla caserma di Bolzaneto) a fine proiezione si è sentito ugualmente devastato, come si trovasse ad affrontare la documentazione di quei fatti per la prima volta nella sua vita.

Dopotutto nessun documentario o verbale processuale è mai riuscito a restituire in modo così vivido e crudo ciò che è successo prima, durante e dopo il blitz notturno alla scuola Diaz. Finalmente il film di Vicari ci porta dentro quell’edificio, dà un volto e una voce a quelle ombre che avevamo soltanto a intravisto attraverso delle finestre, materializza la violenza e l’umiliazione che fino a oggi avevamo soltanto letto dalle testimonianze di attivisti e giornalisti. Sostituisce insomma all’immaginazione l’urgenza squisitamente cinematografica dell’immagine, riuscendo a far emergere quanto possa essere più terribile di ogni altra ricostruzione mentale. E Vicari questo lo fa scegliendo un realismo crudo e spietato delle riprese, con un notevole approccio ai movimenti di macchina sempre più assedianti e soffocanti (la macchina da presa che gira vorticosamente attorno alla ragazza costretta a spogliarsi di fronte alle guardie di Bolzaneto) e grazie soprattutto alla notevole recitazione degli attori (su tutti Elio Germano, che con Vicari già aveva lavorato in Il passato è una terra straniera). Un film dunque anche stilisticamente ineccepibile, nonostante le grandi difficoltà di produzione che ha dovuto superare. Ma la missione del cinema civile di Vicari non sembra fermarsi alla denuncia, piuttosto cerca di elaborare il “lutto democratico” della scuola Diaz evitando l’agiografia vittimistica ed ogni tipo di retorica sugli stessi carnefici. La sceneggiatura, seguendo tutti gli atti processuali successivi alla vicenda, va infatti a scavare anche nelle verità più scomode, come la coscienza ferita del poliziotto interpretato da Santamaria che fa il paio con il pentimento del giovane appartenente al blocco nero (che Vicari, senza indugiare nel politicamente corretto, inserisce nella Scuola qualche minuto prima dell’irruzione). Sono opposti che si toccano e si intersecano, complicando giustamente una narrazione che non può fermarsi alla mera rappresentazione dei buoni contro i cattivi, dei neri contro i bianchi, ma che spesso si intreccia in una zona grigia con molti demoni ma nessuna demonizzazione, con altrettante vittime innocenti ma nessun eroe.

Eppure è proprio in questo modo che Diaz, oltre che ad omaggiare una generazione ferita ed umiliata, (forse dimenticata, ma certamente mai davvero presa in considerazione), riesce anche risollevare una coscienza critica da ogni parte della “barricata”: alla verità storica si sovrappone la fascinazione narrativa, alla narrazione subentra infine la riflessione etica. E’ un cinema civile che riesce meglio di tanti “padri artistici” dello stesso Vicari, come lo stesso Tullio Giordana (il suo Romanzo di una strage non ci ha entusiasmato), tanto che ci viene da pensare che forse le nuove generazioni sono più brave e capaci di rielaborare cinematograficamente i traumi della loro storia molto più di quanto lo siano i loro genitori.

Curiosità
Proprio qualche giorno precedente all’uscita del film nelle sale è stata data notizia di una circolare del Dipartimento di Pubblica Sicurezza (Ministero degli Interni) che vieta agli agenti di polizia di parlare del film senza prima aver ricevuto un’autorizzazione ufficiale.

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