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Biancaneve: Una favola barocca, priva della sua anima nera

Una favola barocca, priva della sua anima nera

Togli a una fiaba il suo lato oscuro e non otterrai altro che una bella storia. Perché le fiabe sono crudeli, specchio di una saggezza ancestrale, di un inconscio dove le pulsioni di vita combattono perennemente con le pulsioni di morte. In una bella storia il “vissero felici e contenti” è un finale obbligato; nelle fiabe, solo un’opzione tra le tante, che prevedono la morte del personaggio o una vittoria raggiunta anche ricorrendo a strumenti poco leciti. Proprio per questo motivo, Biancaneve di Tarsem Singh non può essere definita una fiaba nel senso più autentico del termine. Della vicenda, infatti, il regista non rappresenta l’aspetto più inquietante e morboso, a cui nemmeno Disney aveva rinunciato: la profonda, radicata, crudele gelosia della Regina nei confronti di Biancaneve. Una gelosia che cercava la sua pace nelle trame della magia nera e della morte e che solo nella morte trovava il suo epilogo.

La reinterpretazione operata dal regista indiano è, invece, decisamente orientata ad ottenere un effetto comico; comicità scaturita dal ribaltamento delle situazioni e dei ruoli, secondo un filone già brillantemente rappresentato dalla serie di Shrek e affini. La debole e impaurita principessa è ora una ragazza moderna, dolce ma sicura di sé; il principe, lungi dall’essere un coraggioso salvatore di fanciulle, è in realtà un uomo leggermente effeminato, decisamente sciocco, non più capace di “portare i pantaloni” (che, va detto, perde continuamente in corso d’opera); i nanetti, dopo il monopolio dell’immaginario disneyano, si rivelano una banda di ladri, che paga sulla propria pelle l’ostracismo dovuto alla loro diversità. La vera rivelazione del film è però la Regina, interpretata da una Julia Roberts perfetta nel ruolo della moderna donna di mezza età, preoccupata delle rughe e desiderosa di uomini più giovani di lei, attenta più al conto in banca che alle trame della magia nera.

Di magico, in realtà, c’è ben poco (sebbene ci siano alcuni momenti davvero memorabili) e la declinazione in chiave moderna della fiaba è dimostrata anche dal riferimento a tematiche tratte dalla nostra quotidianità (la donna alla ricerca dell’autoaffermazione del proprio Io; l’allontanamento di chi è giudicato diverso; il difficile rapporto tra il tempo che passa e un mondo materialista che ci porta a perseguire con ossessione la giovinezza e la bellezza). Il tutto, però, è stemperato nel clima comico, e passa decisamente in secondo piano rispetto al vero punto di forza del film: l’aspetto visivo. Il regista indiano si dimostra capace di infondere all’immagine filmica il colore, la luminosità, la preziosità di un’immagine pittorica e questo perfetto ibridismo si manifesta nei costumi stupendi e nelle scenografie, che alternano citazioni tratte da Gaudì e dallo stile liberty ad atmosfere preistoriche, una preistoria rarefatta e aliena. È nella componente visiva, più che nella trama, che ritroviamo l’aspetto fiabesco, in questo connubio tra un barocco estremo e luminosissimo e la semplicità macabra della capanna in cui è custodito lo specchio e i suoi artifici magici. Trama e immagine viaggiano, dunque, a binari separati. Se la prima, a conti fatti, opta per una comicità semplice, di poco sopra il livello “elementare” e spesso “già sentita”, la seconda è costruita con quell’attenzione che spesso ha portato il regista ad essere tacciato di manierismo. L’unione è ritrovata nel finale in stile Bollywood, un “e vissero felici e contenti” divertente e coloratissimo, che permette allo spettatore di dimenticare certe banalità e ingenuità della storia per uscire dalla sala con gli occhi ancor colmi di Meraviglia.

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